Trump e Putin, così simili e così diversi

Quando, nel novembre 2016, Donald Trump era stato eletto per la prima volta alla Casa Bianca, dall’altra parte del mondo, nel tetro edificio della Duma si brindava a champagne. Quasi dieci anni dopo le sorti di una parte cospicua del mondo appaiono ancora appese al rapporto tra il presidente repubblicano e Vladimir Putin, un rapporto che molti commentatori occidentali si sono spinti a definire «bromance». Il termine si può tradurre in italiano come «amicizia virile» o «legame fraterno», deriva dalla fusione delle parole inglesi «brother» e «romance». Al momento di andare in stampa, settimana scorsa, non conoscevamo l’esito del vertice tra i due previsto a Ferragosto in Alaska, ma qualche considerazione possiamo avanzarla.

Ci troviamo davanti a due leader autoritari e accentratori, due conservatori intenti a rendere i loro Paesi «great again», due rompighiaccio che non esitano a rompere accordi, mandare all’aria alleanze e ignorare le regole. Sembravano a molti le due metà di una strana coppia destinata a rompere gli equilibri internazionali esistenti. Il legame tra i due sembrava così stretto che buona parte della prima presidenza Trump è passata sotto il segno del «Russiagate», l’indagine per scoprire se davvero i servizi segreti di Mosca avessero contribuito alla elezione del repubblicano diffondendo fake news mirate sui social americani (e le voci sul fatto che il giovane Donald sarebbe finito nella rete del Kgb già al suo primo viaggio a Mosca, ancora negli anni Ottanta del Novecento, continuano a girare nei media internazionali). Entrambe le presidenze di Trump sono iniziate con la promessa di risolvere rapidamente il problema con l’invasione russa dell’Ucraina. Nel 2016, era l’annessione della Crimea e l’attacco al Donbass, nel 2024 le bombe su Kiev e altre città ucraine. In entrambe le sue campagne elettorali Trump si è circondato di simpatizzanti filorussi, scommettendo su un’alleanza con Putin che avrebbe dovuto permettergli di affrontare altri nemici, che fossero l’Isis, i liberal americani o la Cina. In entrambi i casi, il capo della Casa Bianca aveva mostrato di comprendere le ragioni di Putin, al contrario dei suoi avversari democratici e degli alleati europei, e aveva insistito per incontrarlo offrendogli aperture insperate (come la promessa di riconoscere l’annessione della Crimea o la decisione di togliere gli aiuti militari per la difesa di Kiev).

Ma il tentativo di «bromance» del 2016 è finito, dopo un paio di summit inconcludenti, con un numero record di sanzioni americane contro la Russia inflitte dall’amministrazione di Washington e con un peggioramento delle relazioni bilaterali «al punto peggiore della storia», secondo la constatazione dello stesso Putin, arrivando a un passo dallo scontro diretto tra militari russi e americani in Siria. Al secondo tentativo, Trump non è riuscito a «concludere la guerra in 24 ore», e ha costretto il presidente russo a una trattativa solo dopo averlo minacciato con sanzioni che avrebbero colpito anche i suoi partner commerciali principali, Cina e India. Nonostante tutte le evidenti simpatie filorusse – soltanto pochi giorni prima dell’incontro in Alaska, il presidente americano ripeteva in pubblico i cliché della propaganda moscovita come quello che «la Russia vince sempre le guerre», e sosteneva che i carri armati russi avrebbero potuto «arrivare a Kiev in quattro ore» – e le affinità ideologiche, Donald e Vladimir faticano a trovare un’intesa. Anche perché in realtà non sono così simili: uno è nato ricco, l’altro poverissimo, uno ha costruito la carriera sul suo narcisismo esuberante, l’altro è salito al Cremlino grazie a intrighi nell’ombra, uno punta al risultato immediato e si stufa facilmente, l’altro persegue ossessivamente i suoi obiettivi per anni. Nel regime putiniano un ribelle anti-sistema come Trump sarebbe finito immediatamente dietro le sbarre. L’americano punta a un risultato da mostrare alle telecamere, ed è pronto rapidamente a cambiare idea per convenienza, come si è visto anche da come ha accettato l’invito a un vertice senza una proposta di pace o almeno di tregua chiara. Il russo viene da una cultura politica dove il compromesso viene equiparato alla debolezza, e la forza alla prepotenza: ha incrementato l’intensità dei bombardamenti nonostante il rischio di far arrabbiare Washington, pur di non venire sospettato di concessioni a quell’America che dichiara da anni il nemico principale della Russia.

Dovrebbe essere proprio questa posizione a spingere il presidente americano – come era già successo nel suo primo mandato – a «incontrare finalmente la realtà», come dice il politologo ucraino Viktor Andrusiv, convinto da mesi che la logica della politica prevarrà sulle simpatie filorusse di Trump e del suo entourage. Per l’analista russo in esilio Aleksandr Baunov invece Putin e Trump potrebbero trovare un’affinità proprio nel loro approccio «personalistico» alla soluzione dei problemi internazionali, e in quella «rivoluzione arcaica» che il capo della Casa Bianca vorrebbe imporre alla diplomazia globale, smantellando il multilateralismo e il diritto internazionale a favore di accordi tra leader e «scambi di territori» e rimaneggiamenti di confini come quello appena negoziato tra Armenia e Azerbaigian con la mediazione americana. Mosca ha già fatto proprio l’approccio «business» trumpiano, cercando di dirottare l’attenzione del leader repubblicano dall’Ucraina verso una serie di progetti congiunti allettanti, dallo sfruttamento delle terre rare e delle risorse dell’Artico all’importazione di gas russo attraverso le società americane e l’acquisto dei Boeing necessari per salvare l’aviazione civile russa dal collasso per colpa delle sanzioni occidentali. Anche perché tra Trump e Putin esiste un’altra differenza cruciale: nonostante entrambi siano scettici verso la democrazia, il presidente americano deve affrontare presto le elezioni del Mid-term, e quindi deve proporre qualcosa ai propri elettori. A differenza di Trump, il dittatore russo non ha mai promesso la pace, e non ha fretta di concluderla, quindi rischia meno una delusione. Per buona parte della sua opinione pubblica – in un autoritarismo in cui le elezioni sono comunque una formalità – già il fatto stesso del summit, per di più in Alaska, un tempo colonia degli zar, è un trionfo di immagine, l’uscita da un isolamento internazionale che rappresentava una delle maggiori punizioni che l’Occidente aveva inflitto al Cremlino.

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