Comincia in sella a una bicicletta la trilogia di Romanzo olandese (Scritturapura, 2025), trittico narrativo sul quale l’autore italiano Marino Magliani ha scritto e continuato a scrivere nell’arco di vent’anni. È il tipo di scrittura che più gli si addice, quella del flâneur, del viaggiatore sentimentale, dell’esploratore e dell’inventore di luoghi. Sì, perché i viaggi interiori, quelli alla scoperta del Genius loci sono i più infidi, i più pericolosi, pieni di atti mancati, di ricostruzioni arbitrarie e di abbagli della memoria, fantasmatici come recita la celebre poesia di Giorgio Caproni: «Tutti i luoghi che ho visto, che ho visitato, / ora ne sono certo: / non ci sono mai stato». Questo per dire della loro tenace inafferrabilità, e una città come Amsterdam è soprattutto una città di luce, attraversandola Magliani deraglia, associa, depista, e mentre progetta il libro, una guida della città, scrive all’editore e al suo traduttore Roland Fagel, che lo raggiunge per accompagnarlo nel suo viaggio.
Magliani a Fagel parla delle meridiane, degli spazzacamini, e insieme si dirigono verso i quartieri orientali, dove vorrebbe «guardare la notte di Amsterdam dall’alto, dal tetto di qualche edificio abbandonato». Ci avverte sul fatto del «vizio di buttare giù le case» degli olandesi, il loro non avere radici, palazzi demoliti e rialzati ogni trent’anni, «una specie di cancellazione legalizzata della memoria», ci guida nei caffè e mentre descrive certi palazzi dà conto anche di notazioni storiche, racconta degli emigranti arrivati qui dall’Est europeo che si imbarcavano per le Americhe, va al Vondel, «un parco alberato dai viali pieni di biciclette», così come si sofferma su alcune chiese importanti, come quella dei Santi Pietro e Paolo.
La sua scrittura procede prestabilitamene ondivaga cercando di impossessarsi di spazi di complessità, mette insieme reportage di viaggio e di osservazione, fonti storiche e letterarie, come quelle del passato coloniale, descrizioni di palazzi, vie, quartieri, luoghi curiosi, negozi di caffè, librerie, così come il racconto dell’esperienza in tempo reale ed en plein air. Sottotraccia c’è anche una mappa di ristoranti, bar, bistrò, locali dove si ferma a bere e mangiare, ne descrive talvolta i piatti, le abitudini, la clientela.
Nella seconda parte, intitolata Le vetrate di Rembrandt, invece, Magliani descrive il luogo dove vive dal 1998, il quartiere di Zeewijk Passage a Ijmuiden, città del Mar del Nord a venticinque chilometri da Amsterdam. È una periferia silenziosa e spaesante ai lati della tangenziale fatta di strade larghe con grandi palazzine, il cielo plumbeo e, oltre il porto dei pescherecci, il più grande dell’Olanda, la zona industriale con gli altiforni e i fumi bianchi delle acciaierie che si alzano nel cielo. Un luogo che gli ricorda la sua Liguria, «la provincia di Imperia, appendice di un corpo piegato davanti al Mediterraneo», luoghi che hanno «la stessa forma, la stessa curvatura, persino gli stessi spigoli».
Sì, perché come gli ricorda Roland Fagel nel primo libro intitolato La talpa: «È della tua Liguria, ancora una volta, che vuoi scrivere». Ogni via di quel quartiere prende il nome di una stella o costellazione, satellite o nebulosa, lui abita con la famiglia in Bellatrixstraat 175, tutte insieme formano la Via Lattea, è li che Magliani scrive e ha lavorato al porto, «a scaricare il pesce nelle stive si faticava a trenta gradi sottozero, quando arrivavo a casa – l’appartamento di un palazzo che non c’è più da anni – non riuscivo a scrivere più di mezza pagina» racconta.
Scritto in forma diaristica, è l’autobiografia e il racconto di uno spaesamento, il microcosmo dove l’autore ha portato la sua vita, narrato con senso d’estraneità e insieme di appartenenza, la condizione di uno che quando va a bere una birra al «club del buon vicino» sta sulle sue come «un perfettamente integrato poco sociale», così si definisce. Accompagnato dal suo sodale Piet Van Bert, «una vita da disoccupato professionista», a Zeewijk Magliani passeggia, e come Walser annota nel suo taccuino frammenti di vita e di paesaggio, sfida la nebbia in un paese dove «è grigia anche la clorofilla e le case sono di mattoni altrimenti sarebbero grigie anche quelle», un luogo freddo e ventoso dove si perde al Parco nazionale Zuid-Kennemerland, un polder (terra rubata all’acqua) che dalla spiaggia prosegue verso Haarlem, riparato dal vento, lì va a camminare tutti i giorni, a fare «la ginnastica degli occhi», osservare per immaginare nuove storie.
Nell’ultimo libro della trilogia, Biografia di un paesaggio anfibio, l’intento è quello di raccontare il Noordzeekanaal, un canale di collegamento tra il porto di Amsterdam e il mare del Nord. Ogni giorno percorre a piedi un pezzo di canale e, come il Celati di Verso la foce, descrive quello che vede, le persone che incontra, la vita che scorre.
Reporter lirico e scrittore di luoghi misteriosi come Biamonti, con questo trittico Marino Magliani conferma la sua originale figura di narratore di paesaggi, narrazioni che ricordano Le storie naturali di Jules Renard.