Dopo quasi tre anni di guerra, Israele si trova di fatto in una guerra esistenziale. Per sua scelta. Il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023 non era stato considerato dall’élite politico-militare israeliana come una minaccia all’esistenza stessa dello Stato ebraico. Ma è stato volutamente trattato per tale.
I sette fronti del conflitto in corso derivano dalla scelta strategica di Netanyahu e del suo governo – specie della sua ala iper-estremista rappresentata dai ministri Smotrich e Ben-Gvir – di far leva sulla inevitabile risposta all’attacco di Hamas per arrivare finalmente alla Vittoria Decisiva.
In termini geopolitici, il Grande Israele dal Fiume al Mare – dal Giordano al Mediterraneo – dai confini peraltro indefiniti, ma certamente molto più estesi degli attuali. Damasco, ad esempio, è rivendicata dal ministro Smotrich come parte integrante di Eretz Yisrael. Infatti le avanguardie delle Forze di Difesa Israeliane (Tzahal) oltre il Golan sono a mezz’ora di carro armato dalla capitale di ciò che resta della Siria.
L’idea della Vittoria Decisiva è figlia di una lunga elaborazione strategica all’interno dell’IDF, le Forze di Difesa israeliane. Vuole rappresentare il superamento del paradigma del «tagliare l’erba». Metafora con cui s’intendeva finora la reazione di norma scatenata da Israele contro gli attacchi missilistici in provenienza dal Libano e dalla Striscia di Gaza. Contro bombardamenti e incursioni limitate, destinate a ripristinare la deterrenza. Ma senza azzardare la resa dei conti definitiva con Hezbollah o con Hamas.
Lo shock del 7 ottobre di due anni fa ha stravolto questa concezione. Serve risolvere una volta per tutte la questione di Gaza, via liquidazione di Hamas. Ma i fronti principali sono altri: si tratta di consolidare ed estendere la presa sulla Cisgiordania per impedirvi la nascita di qualsiasi abbozzo di Stato palestinese; di sbarazzarsi di Hezbollah almeno come forza armata; di avanzare in Siria oltre il Golan, alture strategiche a protezione del Lago di Tiberiade, principale riserva d’acqua dello Stato ebraico. Fra le altre emergenze, tra cui spicca quella degli huti in Yemen, la principale resta però la minaccia del nucleare iraniano.
A che punto siamo oggi? Quanto dista la Vittoria Decisiva, qualsiasi cosa si intenda con essa (e non c’è unanimità su questo a Gerusalemme)? Soprattutto, sulla via verso il trionfo non c’è il rischio che Israele si perda, se non addirittura si suicidi attraverso lo scoppio delle contraddizioni interne all’insieme ebraico? Insomma, dalla Vittoria Decisiva alla guerra civile eccitata dalla guerra esterna la distanza non è enorme.
Il bilancio provvisorio, mentre Netanyahu scatena l’offensiva sulla Striscia per liquidare Hamas e occuparla, è il seguente. Sul fronte di Gaza Israele non solo non è riuscito a eliminare Hamas, ma ha seriamente compromesso la sua reputazione e il suo rango internazionale. Lo si chiami genocidio o meno, ma il massacro di palestinesi, bambini inclusi, ha impresso uno stigma negativo sullo Stato ebraico anche in Occidente.
Persino negli Stati Uniti e nella locale diaspora ebraica. Il governo americano continua di fatto a sostenere Israele, ma le frizioni fra Donald Trump e Benjamin Netanyahu sono ormai evidenti. Comunque vada a finire, a Gaza il bilancio è tremendamente negativo per Gerusalemme.
Quanto a Giudea e Samaria – alias Cisgiordania – niente sembra poter fermare l’avanzata dei coloni ebrei. L’annessione di gran parte di quei territori è solo questione di tempo. Ciò che comprometterà ancora più gravemente il posto di Israele nel mondo – ma questo non sembra togliere il sonno a Netanyahu e associati, strettamente legati al movimento dei coloni. Come detto, quel che conta di più per la strategia israeliana è però l’Iran. È convinzione generale che nei prossimi mesi Netanyahu riprenderà l’iniziativa contro Teheran per ritardarne il programma nucleare – sradicarlo parrebbe impossibile – colpito ma non distrutto dai raid israelo-americani.
Ma l’obiettivo strategico è il cambio di regime a Teheran. Anzi, la disintegrazione dello Stato iraniano, ridotto in frammenti su base etnica (curdi, azeri, baluci, arabi…). Il paradosso è che contro le aspettative di Israele il regime può contare oggi sul sostegno di fatto di molti suoi oppositori e critici, per i quali prima viene lo Stato iraniano poi il tipo di governo al potere. Reazione patriottica prevedibile, difficilmente incrinabile da un secondo colpo di mano israeliano.
A prescindere dagli altri teatri già menzionati, e non sono pochi, l’impasse sul fronte persiano impedisce per il momento di configurare lo scenario della Vittoria Decisiva agognata dall’attuale Governo. Almeno se con questo si intende un Israele più grande e più sicuro di prima. Ovvero, un Israele senza nemici nella regione che possano minacciarne l’esistenza.
In più, queste guerre senza fine hanno riportato in evidenza la minaccia della Turchia. Infatti, oggi israeliani e turchi si fronteggiano nei dintorni di Damasco. E la retorica di Ankara, eccitata dall’islamismo militante, dipinge il leader israeliano Netanyahu come il nuovo Hitler.
Il fronte principale per capire come evolverà questo insieme di partite che vertono sull’esistenza – non solo sulla sicurezza – di Israele, resta però quello interno.
La guerra ha riportato in evidenza le faglie domestiche. Ad esempio, quella degli haredim, gli ultraortodossi antisionisti in forte crescita demografica che si rifiutano di servire uno Stato che considerano violazione dei loro precetti religiosi. Per tacere degli arabi israeliani. E delle dispute fra sionisti laici e religiosi, in tutte le loro possibili variazioni.
Il futuro prossimo dirà se l’aspirazione alla Vittoria Decisiva salverà Israele da se stesso oppure se ne accelererà le crisi interne, fino a minacciare di produrre l’effetto opposto a quello desiderato.