Relazioni umane a sviluppo istantaneo

Si fa quello che si può con quello che si ha, il resto è relazione umana. Basta una frase per riassumere la grande lezione del fotografo Sven Creutzmann, invitato a tenere il workshop Storytelling Through the Lens (Raccontare storie attraverso l’obiettivo) nell’ambito del recente Film Festival di Locarno organizzato in collaborazione con la Manawa Foundation (www.manawa-foundation.com). Ma ai suoi partecipanti servirà una vita di appassionata dedizione per metterla a frutto.

«Le persone cercano i volti di altri esseri umani nelle immagini: mostrate i volti dei vostri soggetti. Per farlo dovrete ottenere la loro fiducia, che potrete conquistare solo se sarete davvero interessati alle loro storie. È fondamentale: i volti esprimono le emozioni, le emozioni stanno alla base delle narrazioni vere».

Nove, i partecipanti selezionati. Giovani, i loro volti (dai 22 ai 32 anni). Tutte intriganti, le storie dei loro progetti. Così, la macchina del festival cinematografico di Locarno, grazie al programma di Factory, investe nelle nuove generazioni.

Il più giovane è un brasiliano residente in Argentina, che si è focalizzato sui margini del Festival, dai karaoke agli eventi collaterali. Legato al Festival è anche il progetto della ragazza cinese che vive nel Regno Unito: specializzata nella fotografia sportiva, durante il corso ha cercato di catturare il senso di perdita e vulnerabilità sul volto di un regista vinto. Un’emozione autentica, come quelle inseguite dall’azera in cerca di confessioni mai fatte, da immortalare nel momento in cui avvengono. Intimità emotive difficili da cogliere, non meno di quelle fisiche: la compagna di banco russa residente in Spagna ha infatti puntato l’obiettivo sulle docce serali di persone provenienti da vari ceti sociali.

C’è poi la libanese che ha ritratto chi, durante il Festival, lavora dietro le quinte, e l’indiana residente in Inghilterra che si è dedicata all’adattamento degli anziani alla modernità, mentre il suo conterraneo rimasto in patria ha realizzato una serie di ritratti sul legame emotivo che le persone instaurano con gli oggetti, in quanto scrigni di ricordi, perdita, desiderio o identità.

Siamo stati un’intera mattinata con loro, in un’aula dell’ex Magistrale di Locarno, dove tutti i giorni del Festival, dalle nove alle tredici, si sono radunati per discutere e analizzare gli scatti prodotti tra il pomeriggio e la notte precedente: un tour de force! Un massimo di venti fotografie al giorno, scattate con una fotocamera a sviluppo istantaneo consegnata dall’organizzazione. La stanchezza già accumulata, la frustrazione per alcuni scatti non riusciti, il desiderio di fare meglio, nulla di tutto questo ha compromesso l’entusiasmo del docente e la curiosità dei partecipanti, dato l’evidente fermento di idee, la volontà di condividere aneddoti e i consigli tecnici elargiti con infinita generosità.

Di questa esperienza abbiamo parlato con due italiani non ancora citati tra i partecipanti: Elena Tonon, 24 anni, di Conegliano (TV), e Francesco Altissimi, 26 anni, di Ronciglione (VT). Lei ha studiato cinema per cinque anni a Milano, lui si è laureato in Filosofia all’Università di Bologna, e da tempo coltiva una passione molto forte per il mondo audiovisivo. Entrambi aspirano a raccontare la realtà, con sguardi diversi, entrambi vogliono fare questo per mestiere, entrambi proseguiranno il loro progetto anche dopo il workshop. A riprova del buon investimento formativo offerto dal Film Festival.

Elena – che ha uno sguardo delicato, aperto all’errore, e alla ricerca di contrasti – ama stare a contatto con persone diverse da lei «e allontanarmi il più possibile da ciò che conosco e che mi è familiare». Il suo progetto riguarda la prostituzione: «Mi interessano soprattutto i momenti in cui non succede niente, i momenti di attesa, di noia, di stallo, cercare una dimensione di intimità per riconsegnare un ritratto che possa far emergere le ipocrisie di questa professione: non ho mai capito fino in fondo quale fosse la mia opinione al riguardo. Voglio avere uno sguardo diretto su questo mondo. Ho in mente di proseguire il progetto, ampliarlo andando anche in altre zone d’Italia, come Milano, o all’estero, visitando altre città in cui la prostituzione è legale, come Amsterdam per esempio». Una vera sfida: «Ho riflettuto molto su come raccontare contesti difficili senza scivolare in vittimismi o moralismi. Con Sven ho imparato che l’unica strategia vera è l’empatia: la fiducia nasce da un interesse sincero, non da artifici. All’inizio temevo fosse impossibile trovare qualcuno disposto ad aprirsi, ma ho scoperto che con tenacia e ascolto il progetto diventa possibile. Sul piano tecnico ho imparato a essere più diretta nell’avvicinarmi ai soggetti, a cercare i volti e le espressioni, a comporre con maggiore consapevolezza. L’esperienza, che temevo insormontabile, si è rivelata invece accogliente e intensa: sono riuscita a entrare in sintonia con diverse persone, vivendo momenti di grande arricchimento umano. Il legame con una coetanea prostituta e la confidenza ricevuta da un’altra ragazza sul suo passato sono stati gli episodi più forti e toccanti. Oggi credo che la fotografia narrativa possa creare mondi simbolici, a patto che non tradisca mai la verità della storia».

Anche per Francesco l’insegnamento più importante ha che fare con il relazionarsi al soggetto: «Quando Sven ce l’ha spiegato è stato come se mi avesse letteralmente aperto la testa, ci avesse messo dentro quest’idea, e avesse richiuso. Ho scoperto che riesco a connettermi con le persone: ho sempre fotografato senza parlare con la gente… e invece ora so che posso relazionarmi con il soggetto».

Tutti i lavori di Francesco, che elogia la distrazione creativa, hanno sempre a che vedere con il sociale, la denuncia di situazioni di vita meno agiate nel pieno rispetto dell’umanità tutta, tant’è che il suo progetto si basa «sulla ricerca della bellezza nella vita lenta delle persone della terza età in risposta al turbocapitalismo: voglio ritrarre gli anziani che sono ontologicamente lenti, fornendo una risposta ribelle alla frenesia di oggi». Per farlo «sono andato nelle Case di riposo e ho chiesto all’ATTE. Ritrarre la lentezza è stato abbastanza facile, mentre lo è stato molto meno cercare di scattare foto a quegli anziani più agiati con stili di vita più lussuosi, che a volte sono stati anche sgarbati». Pure Francesco, come detto, proseguirà il suo progetto spostandolo da Locarno a Sant’Erasmo: «un’isola vicino a Venezia, dove si vive in una maniera anticapitalista, godendo di quello che la natura offre, senza consumismo e frenesia: adotterò tutti gli apprendimenti di questo workshop, soprattutto creando connessioni con le persone».

Fondamentale è stata la presenza multietnica e multiculturale dei compagni, come riassume Elena: «L’incontro con altri allievi, con sensibilità e sguardi diversi, è stato prezioso quanto l’acquisizione di una maggiore consapevolezza tecnica e umana».

Chiediamo loro di regalarci un’ultima riflessione, e Francesco ci dona un’immagine: «Mi ha veramente toccato tantissimo vedere Sven triste per la fine di questo workshop, triste a causa del paradosso intrinseco al mestiere stesso che fa e che ci ha insegnato: tu racconti le storie degli umani, entri in contatto con loro, ma non hai mai la stabilità di questi rapporti, proprio perché il tuo lavoro ti porta sempre altrove».

Eppur tuttavia, come ci ricorda Elena, «l’essenza resta. Nel nostro caso in un quaderno-carnet che ci è stato donato e che noi abbiamo riempito con le immagini scattate in questi giorni, ma anche nella frase di Sven: “Una fotografia è una dichiarazione d’amore a un momento”».

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