A dieci anni si dovrebbe giocare. Si dovrebbe avere ancora la bocca sporca di cioccolato, le ginocchia sbucciate per le corse in cortile, i sogni pieni di avventure fantastiche. E invece, a quell’età, c’è chi inizia a contare le calorie, a guardarsi allo specchio con occhi crudeli, a vivere con la paura di un piatto di pasta. Eppure, l’alimentazione è essenziale per la sopravvivenza di qualsiasi organismo vivente. Negli ultimi anni, in Svizzera e in Ticino, i disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono cresciuti in modo allarmante soprattutto tra i più giovani. I dati più recenti risalgono a dopo la pandemia e indicano un aumento dei casi fino al 50%, con un’età di insorgenza che scende anche sotto i dieci anni: uno studio della Scuola universitaria professionale di Berna e Insel Gruppe (giugno 2022) evidenzia un incremento post-Covid compreso tra il 30 e il 50% dei nuovi casi in Svizzera durante il biennio 2020-21; il 3% della popolazione ne soffre (di cui fino al 20% sono giovani fra i 12 e i 25 anni). In Ticino, il Centro DCA di Mendrisio segnala un aumento tra il 30 e il 40% dei casi, mentre il profilo dei pazienti indica che nel 2023 il 70% dei nuovi casi riguarda persone con meno di 20 anni e un abbassamento dell’età di esordio sotto i 12 anni. Ragazze adolescenti, ma anche bambini e giovani uomini, finiscono sempre più spesso in cura per anoressia, bulimia o binge eating.
Cosa succede è riassunto sulla «Révue Medicale» nell’articolo del dottor Marco Solcà e altri suoi colleghi (Dipartimento di psichiatria dell’Ospedale universitario di Ginevra): «Nei disturbi alimentari, il processo vitale dell’alimentazione si trasforma in una fonte di sofferenza psicologica, portando a conseguenze somatiche e impattando sul funzionamento dell’individuo e di coloro che lo circondano». Una crisi silenziosa che si manifesta nel piatto, ma affonda le radici nella psiche e nel contesto sociale, e che oggi chiede attenzione, prevenzione e risposte concrete. Ne parliamo con la dottoressa Alessandra Gritti (Psicologa e psicoterapeuta Sistemico Relazionale, specialista nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare) che venerdì 26 settembre alla Residenza al Parco Tertianum a Muralto sarà una delle relatrici al Simposio promosso dalla Società Ticinese di Ricerca e Psicoterapia Sistemica (STIRPS) sul tema dei cambiamenti intercorsi in differenti ambiti legati alla famiglia in questi ultimi 35 anni. Gritti definisce l’approccio «sistemico» come una terapia che non si concentra solo sull’individuo, ma su relazioni, dinamiche e comunicazione: «L’approccio sistemico permette di osservare il funzionamento di un elemento dentro al contesto in cui vive, si muove, pensa e agisce, partendo dal presupposto che ogni elemento di un sistema acquisisce un significato e un valore proprio nei confronti e nelle relazioni con gli altri elementi dello stesso sistema. Essendo la famiglia un sistema, sottoponendo a un cambiamento uno dei suoi elementi, subiranno un cambiamento anche tutti gli altri, e questo accade nella sofferenza così come nella cura. Quindi, nella psicopatologia ciascuno può muoversi in un circolo vizioso dove la sofferenza amplifica se stessa ma, così come nelle relazioni tra i membri del sistema, si può innescare una complessità di cambiamenti attraverso la terapia familiare in cui la cura reciproca dà il via a un circolo virtuoso».
La specialista sottolinea: «L’approccio considera tutta la famiglia in modo sistemico, perché è in quel contesto che il paziente, o la paziente, prende da sempre la sua linfa dell’esistenza. I due formati della terapia in parallelo (terapia famigliare e quella individuale) permettono di considerare l’integrazione di questi due sottosistemi». Nel trattamento dei disturbi alimentari emerge l’importanza di coinvolgere la famiglia non solo come contesto, ma come preziosa ed essenziale risorsa nel percorso di cura: «Lo psicoterapeuta sistemico deve poter lavorare con tutta la famiglia nel ricostruire quali situazioni hanno fatto traboccare il vaso della sofferenza che ha preso forma del disturbo alimentare». Le «fatiche emotive e psicologiche» poggiano inconsapevolmente sul sistema relazionale famigliare, strutturando nel tempo la sofferenza: «Lavorare con la famiglia significa potere ricostruire la consapevolezza di dove e come le cose non sono andate come i genitori si auguravano, insieme agli elementi della vita che possono accadere e diventare eventi più o meno traumatici. Ricostruire tutti insieme, acquisire consapevolezza di tutto quanto è accaduto, anche di ciò che è andato bene, permette a tutti i membri di ritrovare nuove risorse lavorando su di sé: i genitori possono acquisire solidità, sicurezza di sé, trattare i propri sospesi, fare pace con il proprio passato e la propria vita e i propri traumi. Ciò permette ai figli di poter avere guide emotivamente rassicuranti anche dal punto di vista psichico».
Ciò non significa stigmatizzare i genitori o, peggio, attribuire loro responsabilità: «Ma bisogna prendere coscienza di quei giochi relazionali molto antichi nella storia dei genitori ancora prima di diventare genitori. È come gettare le basi per affrontare la vita maturando consapevolezza. Non significa “dare una responsabilità, né tantomeno una colpa” ai genitori, ma è andare tutti insieme a riavvolgere il filo della vita per riposizionarsi in una dimensione trigenerazionale che permette di comprendere dove e come si siano innestate quelle fatiche che coinvolgono tutto il nucleo famigliare».
La presa in carico nella cura di pazienti con DCA è multidisciplinare: «L’équipe multidisciplinare è essenziale perché unisce la parte di cura psicoterapica con quella del corpo. Quindi, è importante la collaborazione fra psicologi, medici, nutrizionisti, infermieri: solo così ci si può prendere adeguatamente cura del corpo (internista o dietologo o nutrizionista), mentre della mente, degli affetti e delle relazioni ci prendiamo cura noi psicoterapeuti (psicologi sistemici, psichiatri o neuropsichiatri)». Inoltre, la buona presa in carico si sviluppa su due binari paralleli che si integrano fra loro: «Quello di terapia famigliare e quello di terapia individuale, nella quale si affronteranno alcuni temi più attinenti al funzionamento individuale e relazionale del paziente». Per i genitori, riconoscere precocemente i sintomi è fondamentale per una guarigione più rapida e duratura e i segnali d’allarme non vanno sottovalutati: «Alcuni segnali comportamentali sono ossessione per il cibo, calorie e dieta; evitamento di pasti in famiglia o comportamenti apparentemente insoliti o bizzarri a tavola; isolamento sociale; umore instabile, irritabilità o depressione. I segnali fisici sono perdita di peso evidente o fluttuazioni anomale, stanchezza cronica, alterazione del ciclo mestruale. Alcuni emotivi e psicologici: bassa autostima legata all’aspetto fisico, paura di ingrassare anche se il peso è normale o basso, controllo eccessivo su alimentazione ed esercizio fisico».
Gritti non promette guarigioni veloci: «Ma guarire si può, in un “tempo che sembra lungo, ma è la strada più breve” che è proprio quello della terapia famigliare sistemica e della presa a carico multidisciplinare». I disturbi alimentari non sono semplici «capricci» o problemi legati al cibo, ma segnali profondi di sofferenze che spesso coinvolgono l’intero sistema familiare e relazionale. Lo sguardo sistemico e la collaborazione tra professionisti offrono una strada concreta e rispettosa per accompagnare i pazienti e le loro famiglie verso un cambiamento possibile. Nessuno guarisce da solo e nessuno dev’essere lasciato solo. Chiedere aiuto è già un primo passo di cura.