Un’arena diplomatica tra finzione e attualità

The Deal, la prima serie di finzione del regista svizzero Jean-Stéphane Bron, è un ottimo thriller politico ambientato a Ginevra nell’aprile 2015, durante le delicate negoziazioni internazionali sul nucleare iraniano. In un clima di alta tensione, Stati Uniti e Iran si confrontano per cercare un accordo che possa evitare l’escalation verso un conflitto. L’azione si svolge principalmente tra le mura di un hotel di lusso, in cui ogni parola, gesto e silenzio può influire sugli equilibri del negoziato. Al Locarno Film Festival (dove è stato presentato in anteprima) abbiamo incontrato il regista.

Jean-Stéphane Bron, cosa l’ha spinta ad adottare questo formato per raccontare la storia?
Non è stata la storia a portarmi al formato, ma l’inverso: è stata la forma a guidarmi verso la storia. La RTS aveva indetto un concorso aperto agli autori indipendenti per progetti seriali con un formato preciso: sei episodi. È stato questo a spingermi a cercare un’idea con un forte ancoraggio svizzero e un’aura internazionale. Nel 2015 avevo letto molto sull’argomento, anche perché un amico giornalista seguiva le negoziazioni internazionali e mi raccontava di come, a volte, passasse giornate intere ad aspettare i diplomatici per porre loro un paio di domande. Mi interessava quel contesto, e quando ho pensato al formato seriale ho capito che le trattative potevano diventare la «mia» arena. Nella serialità, l’arena è fondamentale: è il mondo in cui si muovono i personaggi. In questo caso, il mondo della diplomazia, a Ginevra. Ho pensato: posso raccontarlo con un punto di vista diverso, scoprire cosa succede dietro le quinte, attraverso la protagonista Alexandra Weiss, a capo del protocollo della missione svizzera. Ho sempre pensato che le «spalle» – in senso cinematografico – siano un ottimo modo di raccontare ciò che accade in scena: se le filmi bene, il fuori campo diventa narrativo e centrale. I negoziatori svizzeri – che in realtà si definiscono «facilitatori» (termine tecnico della diplomazia), non negoziano direttamente: aiutano le parti a trovare un terreno comune – sono diventati il nostro fuori campo.

E il legame con l’attualità?
È stata una coincidenza incredibile. Nella nostra serie, l’Iran bombarda Israele; nella realtà, è stato Israele a colpire l’Iran. La questione centrale — il nucleare iraniano e il rischio di attaccare i siti nucleari — nella nostra storia si risolve con un negoziato, non con un’azione militare come è successo realmente. Quando abbiamo iniziato a scrivere, il mondo era ancora quello dell’era Obama: multilaterale, con russi, cinesi, europei, iraniani e statunitensi seduti allo stesso tavolo. Immaginarlo oggi è impossibile, sembra quasi di essere tornati al XIX secolo, con la forza, le minacce, la pressione militare come strumenti primari.

Ha anche reso umano il potere…
È fondamentale e un aspetto che avevo osservato anche in un mio documentario sul Parlamento svizzero: una deputata ecologista non voleva essere ripresa con un collega dell’UDC. Ma un giorno il cavallo della prima si ammalò, e l’altro, che era contadino, le chiese come stesse. Quel momento di connessione umana li avvicinò oltre la differenza politica. Sono i piccoli gesti a creare grandi accordi.

Lei viene dal documentario politico. Cosa ha portato di quell’esperienza nella realizzazione della serie?
Quando faccio documentari ho un’ossessione: per ogni scena mi chiedo quale sia la grammatica visiva: camera a spalla? In movimento? Fissa? Qui abbiamo deciso che sarebbe stata la scena a decidere: a volte camera a spalla, altre camera fissa. Un altro aspetto che ho portato dal documentario è l’uso dello sguardo in camera. Nei miei film documentari chiedo spesso ai protagonisti di guardare direttamente nell’obiettivo: questo crea un contatto intenso con lo spettatore. Nella serie ho fatto lo stesso in molte scene di confronto tra il Ministero degli Esteri iraniano e la diplomatica americana: gli attori guardavano in camera, un po’ come in un western dove i personaggi si scrutano negli occhi.

Quali sono state le scene più complesse da girare?
Sicuramente quelle delle negoziazioni, ai tavoli delle trattative. Volevo che fossero credibili al 100%, con una tensione costante e una continuità narrativa solida. Perciò ho chiesto di girarle in continuità, durante alcuni giorni di riprese, in modo che gli attori – ricordando ciò che avevano fatto nei giorni precedenti – potessero immergersi completamente nel loro ruolo.

Quanto è durato il lavoro di scrittura e produzione?
La scrittura è durata circa sei anni, senza interruzioni, con aggiustamenti sulla sceneggiatura fino alle riprese e il montaggio è stato terminato nel mese di marzo di quest’anno. Per le location abbiamo girato in cinque hotel svizzeri e due in Lussemburgo: a volte una scena inizia in un hotel, continua in un altro e finisce in un terzo, ma sullo schermo non sono riconoscibili e il tutto sembra svolgersi nello stesso albergo ginevrino.

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