E l’India si scopre «multi allineata»

Riassunto delle puntate precedenti: lo scorso aprile l’India ha bombardato alcuni campi di jihadisti in Pakistan per rappresaglia contro un attacco su civili compiuto dai suddetti terroristi pakistani. Dopo quattro giorni di conflitto Donald Trump annunciava la fine delle ostilità accreditandosi come mediatore e paciere. L’India negava ogni coinvolgimento del presidente americano, il Pakistan lo candidava invece al Nobel per la pace, mettendo in più sul piatto una serie di «deal», accordi commerciali che riguardano lo sfruttamento di miniere nella regione del Belucistan più varie ed eventuali. Dopo una serie di pranzi e incontri conviviali tra Trump, il suo staff e Asim Munir (capo dell’esercito e di fatto dittatore del Pakistan che su territorio americano minacciava di usare il nucleare sull’India e su chiunque pensasse di colpire Islamabad) e vari scambi di cortesie, il presidente americano imponeva agli scambi commerciali con l’India dei dazi del 50%. Giustificandoli con il fatto che New Delhi compra petrolio e armi dalla Russia e che quindi finanzierebbe indirettamente la guerra in Ucraina.

Sul piatto, più che gli scambi commerciali e l’ego di Trump, ci sono le differenze strategiche e di approccio dei due Paesi e il solito braccio di ferro su un concetto che risulta quantomeno ostico agli americani quando si tratta di Nazioni appartenenti all’ex «Terzo mondo»: la sovranità nazionale. Il meeting di agosto ad Anchorage, in Alaska, conclusosi con un nulla di fatto tra Trump e Putin, lo ha chiarito in modo lampante. Trump voleva dagli indiani un gesto simbolico di sottomissione. Ha mandato i suoi funzionari con il solito ultimatum: «Smettete subito di comprare il petrolio russo altrimenti…». La delegazione indiana ha ascoltato con calma, ha ringraziato e ha rifiutato. Non per provocare, ma per logica elementare: senza energia a buon mercato, l’India frena la sua crescita economica. Le tariffe imposte a Nuova Delhi colpiscono di rimbalzo anche l’America, ma a Washington a quanto pare non interessa più di tanto: Trump gioca sui titoli di giornale, sul ritorno di immagine a breve termine, mentre le strategie indiane sono a lungo termine e molto più complesse di quanto gli Stati Uniti sembrino capire.

Nel 1998, dopo i test nucleari, gli americani avevano tentato di isolare Delhi con le sanzioni. Ventisette anni più tardi l’India è una potenza nucleare riconosciuta e rispettata. Ogni crisi petrolifera ha rafforzato la sua capacità di diversificare. Ogni pressione esterna ha consolidato la dottrina dell’autonomia strategica. Pensare che qualche dazio possa piegare un Paese con questa memoria storica è ingenuo. E difatti uno dei primi risultati della strategia trumpiana è stato il vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO) ospitato dal Governo cinese, a cui ha partecipato anche Vladimir Putin. Narendra Modi, che non andava in Cina da sette anni, è stato accolto con tutti gli onori da Xi Jinping: che parla di «rafforzamento del Sud globale» e di cooperazione con l’India. E qui entra in gioco la contraddizione americana. Da un lato gli Stati Uniti proclamano l’India «partner indispensabile» nell’Indo-Pacifico, il pilastro della strategia per contenere la Cina. Dall’altro Trump tratta Delhi come una controparte minore, da punire con la clava dei dazi. Una schizofrenia che indebolisce la credibilità americana. Perché se l’obiettivo è costruire un’alleanza solida contro l’espansionismo di Pechino, l’ultima cosa da fare è trasformare l’India in un partner diffidente. Pena l’indebolimento del Quad, l’alleanza strategico-militare tra Usa, India, Australia e Giappone che nelle intenzioni di Washington dovrebbe essere la «mini-Nato» dell’Indo-Pacifico, la cintura militare per contenere Pechino. Più Trump alza i dazi e fa la voce grossa, più diventa difficile convincere Nuova Delhi che il Quad sia qualcosa di diverso dall’ennesimo marchingegno a guida americana che vuole sudditi più che alleati.

Sul piano geopolitico il quadro è chiaro. L’India non è più «non allineata» nel senso del passato, ma «multi allineata». Collabora con gli Stati Uniti nella difesa, con la Francia negli armamenti, con il Giappone nella tecnologia, con la Russia nell’energia, con il Medio Oriente nei corridoi commerciali. Nessuno può rivendicare un monopolio su Delhi. Chi ci prova, rischia solo di scoprire quanto sia vasta la rete di alternative già pronta. E infatti, se gli Stati Uniti alzano muri tariffari, l’India guarda altrove. L’Unione europea cerca partner affidabili per ridurre la dipendenza cinese: Delhi è una candidata naturale. L’Africa apre mercati immensi e ha fame di investimenti, e l’India è già presente con infrastrutture e tecnologia. Il Golfo si propone come hub energetico-finanziario, e Modi rafforza i legami con Riyad e Abu Dhabi. In questo puzzle l’America non è più l’unico pezzo indispensabile, ma uno dei tanti. Trump vuole in teoria punire l’India per la sua vicinanza energetica a Mosca. Ma spingendo troppo, non fa che consolidare quella vicinanza, regalando spazio a Putin e applausi a Xi Jinping. È l’America che si auto-indebolisce, non l’India.

A breve termine gli esportatori indiani soffriranno. Ma alla lunga i mercati si apriranno altrove: Europa, Africa, Sud-est asiatico. E quando gli Usa vorranno rientrare, forse il loro posto non sarà più riservato. Il dilemma quindi non è tra dazi al 25% o al 50%. È tra visione e miopia. Tra accettare l’India come partner sovrano o trattarla da subordinato. La conclusione è banale e non dovrebbe sfuggire a Washington: l’India non ha intenzione di cedere. Non ai dazi, non alle minacce, non alle nostalgie pakistane e tantomeno ai ricatti travestiti da «lotta al terrorismo». Continuerà a tracciare la sua rotta, con o senza l’approvazione dell’America. Con buona pace di Donald Trump.

Related posts

La «Flotilla» ostinata verso Gaza, così funziona la macchina degli aiuti

Israele ha scelto la guerra esistenziale

Quando un panino non basta per imbonire Trump