Durante i tumulti di maggio del 1968 a Parigi, il piccolo Christophe, nove anni, viene lasciato dai genitori militanti nell’appartamento dei nonni. Attorno a lui si raduna l’intera famiglia: i nonni segnati dalla guerra, lo zio linguista e il fratello, artista fallito. Tutti convivono in un ambiente caotico ma affettuoso, segnato da una misteriosa «cache», un nascondiglio (anche per un personaggio importante che non sveliamo) che porta con sé i segreti della memoria familiare e della Shoah. Mentre fuori la città esplode tra scioperi, manifestazioni e utopie di cambiamento, all’interno dell’appartamento, i Boltanski rivivono un passato fatto di fughe, paure e di resistenza. La «cache» diventa allora il simbolo di ciò che non si dice, delle identità inventate per sopravvivere, delle radici mai completamente rivelate. Un’interessante pellicola – intitolata Il nascondiglio (dall’originale in francese La cache) – anche dal punto di vista visivo e con una scenografia che ci fa tuffare in quegli anni grazie ai vestiti dai colori sgargianti, le capigliature folte e lunghe e gli oggetti d’uso comune come la tv col tubo catodico, il telefono con la cornetta e il disco da girare.
Il regista svizzero Lionel Baier, che ha presentato il film in anteprima al concorso di Berlino, ha scelto di raccontare questa saga familiare sotto forma di commedia intima e tenera, capace di mescolare leggerezza e humour con il peso della Storia. Attraverso gli occhi del bambino, Il nascondiglio esplora i legami familiari, il bisogno di finzione per costruire un’identità, e l’ombra dell’antisemitismo e della memoria della Shoah. Una memoria che, come Baier ha spiegato, non è mai soltanto un fatto del passato, ma continua a impregnare il presente.
Con Il nascondiglio, Lionel Baier firma forse il suo film più personale e al tempo stesso più universale. La commedia diventa lo strumento per raccontare la Storia senza retorica, per restituire l’intimità di una famiglia che riflette l’Europa intera, con le sue fratture, i suoi silenzi e le sue rinascite. Come i personaggi che abitano l’appartamento Boltanski, anche lo spettatore è invitato a entrare in questo nascondiglio e a confrontarsi con le proprie memorie: quelle che si tramandano e quelle che si preferirebbe dimenticare.
Al recente Locarno Film Festival, dove il film è stato accolto con calore, abbiamo incontrato il regista.
Signor Baier, il suo film utilizza lo humor per affrontare eventi drammatici. Come riesce a trovare questo delicato equilibrio tra comico e tragico?
Credo sia la chiave migliore per raccontare un evento serio. Gli italiani, ad esempio Monicelli negli anni 60-70, sapevano perfettamente come fare questo tipo di film. Le commedie italiane affrontavano spesso temi universali come la famiglia, perché sapevano che tutte le famiglie hanno le loro disfunzioni, per poi criticarle con lo humor. Per questo, quando mettiamo gli attori in contesti di guerra, antisemitismo o paura, a mio giudizio è più semplice arrivare direttamente al pubblico se usiamo l’ironia. Certo, anche la fase del montaggio è fondamentale: è un processo lungo perché bisogna trovare l’equilibrio giusto tra il tema serio e la battuta. Chaplin raccontava di fare proiezioni quotidiane per testare le reazioni del pubblico e capire cosa aggiustare. Basta un secondo in più o in meno per cambiare tutto: l’umorismo non è mai matematico, ma empirico.
Ci racconta dell’origine del film, degli elementi personali e storici che ha messo insieme?
L’autore mi ha lasciato completa libertà nell’adattamento e si è molto divertito nel vedere quanto il film fosse diverso dal libro, ma allo stesso tempo anche molto simile nello spirito, perché tende a restituire il romanzo di una famiglia, non la sua verità. Il nascondiglio è infatti una libera trasposizione dell’omonimo romanzo di Christophe Boltanski (Prix Femina 2015). Il libro copre più di un secolo di storia familiare, ma io ho scelto di concentrarmi solo su un frammento, il maggio 1968, che nell’opera originale occupa poche righe. Ho intrecciato a quel nucleo anche elementi autobiografici legati alla mia famiglia: come Boltanski, anch’io ho scoperto contraddizioni, documenti falsi, verità manipolate nel passato dei miei avi. Non mi interessava la fedeltà storica, ma la fedeltà allo spirito del romanzo: raccontare come le identità si costruiscono tanto con la realtà quanto con la finzione.
In generale credo sia meglio vedere prima il film e leggere solo in seguito il libro, perché in questo modo emergono dettagli personali che non si trovano sulla pagina. Ricordo che a una recente presentazione qualcuno mi disse di aver letto il romanzo all’uscita e di aver avuto l’impressione che il film fosse un adattamento molto fedele. In realtà non è così: ci sono episodi e dialoghi che non corrispondono affatto, ho estrapolato solo una minima parte della narrazione.
Il nascondiglio esplora temi come memoria storica, famiglia e identità culturale. Quale aspetto pensa che arrivi maggiormente al pubblico?
Penso che la storia offra uno spunto per interrogare e sfidare il presente. Quando ho iniziato a scrivere il film nel 2016, il clima politico in Francia era diverso: l’estrema destra e l’antisemitismo sembravano più marginali. Oggi è cambiato molto, e mai avrei immaginato di vedere in strada parole e gesti tanto violenti. I cicli storici tornano e ci ricordano quanto sia fragile il confine tra pace e conflitto, libertà e oppressione. Se il film riuscirà a evocare questa fragilità, avrà raggiunto il suo obiettivo.
Senza anticipare troppo, c’è una scena molto commovente che ha come protagonista Michel Blanc (attore molto popolare soprattutto in Francia), al suo ultimo ruolo. Ce ne parla?
Quella scena esisteva già nella sceneggiatura, ma durante le riprese si è trasformata. Michel Blanc, a causa del freddo, chiese di indossare un mantello, e quando lo vidi così vestito non mi convinceva del tutto, mi sembrava un pinguino, ma quando l’abbiamo girata e l’ho visto partire, mi è sembrata un’immagine alla Chaplin. Poi il bambino ha iniziato a fischiare una melodia di Haydn, e Blanc lo ha seguito d’istinto. È stato un momento di grazia. C’è qualcosa di profondamente simbolico nel fatto che l’ultima immagine della sua carriera sia proprio lui che fischietti accanto a un bambino. Da giovane avrebbe voluto essere pianista, e in quell’istante sembrava finalmente unire musica e cinema. Una chiusura poetica, che il film custodisce come un dono.