Ci incontriamo, in una bella mattinata estiva, nel suo quartiere di Massagno per fare due chiacchiere su come sia finito a fare il fotografo.
Nato e cresciuto nel Canton Lucerna fino all’età di 23 anni, fin da ragazzino a Karl piace esplorare la magia della fotografia grazie a una piccola macchina instamatic che gira per casa: «Ricordo che mia madre era molto brava: con dei vecchi apparecchi faceva delle grandi foto. Forse è lì che ho preso il virus. Per le stampe, a quei tempi si portava la pellicola in drogheria: erano loro che se ne occupavano». Giunto però il momento di decidere che cosa fare nella vita, Karl sceglie il mestiere di cuoco. Dopo l’apprendistato lavora per qualche tempo al celebre Grand Hotel Bürgenstock, sopra il lago di Lucerna, per finire poi, piuttosto in fretta, a fare lavori temporanei nei cantieri come manovale.
Ed è qui che s’insinua il caso fortunato che lo indirizzerà verso una professione che forse non si sarebbe mai sognato di esercitare. Siamo agli inizi degli anni Settanta, quando incontra un amico ed ex collega di lavoro, già alle dipendenze dell’agenzia Keystone. Questi gli propone di presentare una sua candidatura all’agenzia. Detto fatto, le prove a cui viene sottoposto danno esito positivo ed è così che, di punto in bianco, si ritrova ingaggiato nelle vesti di fotoreporter: «Sono scivolato dentro. Mi hanno fatto fare delle prove, una partita di calcio, una conferenza stampa, eccetera. Mica male, mi dice il capo, puoi cominciare da noi».
Rimane due anni con Keystone per passare poi, nel 1973, all’agenzia Photopress di Zurigo – poi assorbita da Keystone – che sta cercando un corrispondente per il Ticino che sappia dunque parlare l’italiano; ed è il caso di Karl, che con la nostra lingua già un po’ se la cava. Approda così a Lugano.
Come corrispondente regionale, il lavoro consiste nel coprire fotograficamente, giorno per giorno, gli eventi rilevanti nel nostro Cantone: dalla politica alla cultura, dallo sport ai fatti di cronaca. Considerato che questo lavoro viene poi venduto dall’agenzia alle testate svizzere (tra cui anche ai cinque quotidiani allora ancora attivi in Ticino), si tratta di riuscire a raccontare i vari eventi con un’immagine significativa, il più possibile emblematica, a dispetto di ogni possibile avversità, dalla luce particolarmente sfavorevole alle tempistiche strette oppure in orari inconsueti: «Con un’immagine devi spiegare tutto. Nel caso dell’inaugurazione di una diga, la stretta di mano tra due politici va assolutamente fatta davanti alla diga. Senza la diga, la foto non varrebbe niente. Le foto andavano fatte con qualsiasi tempo, pioggia, grandine: ciò che contava era che la sera si portasse a casa qualcosa. Ho sempre detto, ci sono tanti fotografi più bravi di me, ma non tutti si sanno arrangiare come sono riuscito a fare io».
Siamo ancora nella gloriosa fase storica della pellicola, i tempi di lavorazione sono più dilatati, ma non per questo si esige meno tempestività: trattandosi di attualità, Karl, nel limite del possibile, si occupa di andare fino in fondo al processo fotografico, dallo scatto allo sviluppo e stampa delle immagini – attività, questa della camera oscura, che lo appassiona e nella quale eccelle. Infine, alle immagini, da lui stesso scelte, va assegnato un descrittivo, una didascalia, soprattutto per facilitare il referente dell’agenzia a Zurigo che le riceverà per smistarle. Può però anche succedere che, data l’ora tarda del servizio (ad esempio, una partita di calcio o di hockey) e a causa dell’urgenza della consegna, i rullini scattati ma non ancora sviluppati o stampati, corredati delle informazioni del caso, vengano spediti in sede, a Zurigo, con l’ultimo treno.
Al di là della cronaca locale, Karl è stato pure assai impegnato all’estero, soprattutto per seguire avvenimenti sportivi, settore da lui prediletto. In questo ambito, ha coperto dieci olimpiadi, parecchi mondiali di calcio oltre a numerosi altri importanti incontri e meeting sportivi. Molti gli aneddoti. Tanto per cominciare doveva portarsi appresso una non esigua quantità di attrezzatura fotografica, e tutto il materiale necessario allo sviluppo e alla stampa delle immagini – che veniva poi utilizzato nel bagno delle camere d’hotel in cui soggiornava, dall’ingranditore alle vasche e ai bagni di sviluppo, fino alle carte fotografiche – e il macchinario necessario alla loro trasmissione in sede. Ben settanta chili di bagaglio che, talvolta, incontrava anche la diffidenza di solerti funzionari doganali.
In quei contesti, le fotografie venivano inviate giorno per giorno con una macchina, una sorta di fax – il belinò(grafo) – che, collegato a una linea telefonica, trasmetteva dei suoni tradotti in ricezione con dei punti. Per una foto in bianco e nero ci volevano sedici minuti di collegamento, tre volte tanto per quelle a colori. Spedire più foto significava passare diverse ore, invece che sul campo, nella camera d’albergo. Chiamando dall’estero, possiamo pure immaginare i costi astronomici che ciò, a quei tempi, poteva implicare.
Al di là dei viaggi, da Karl comunque non troppo amati, la professione gli ha offerto l’occasione di conoscere contesti altrimenti inaccessibili, come entrare in contatto con alte personalità. Oltre a vari politici e Consiglieri federali, ha incontrato ad esempio l’allora Principe Carlo d’Inghilterra – col quale ha avuto un ravvicinato quanto sorprendente tête-à-tête nella cabina di una teleferica: «Era a Klosters, con Diana. Noi aspettavamo davanti all’albergo. Quando è uscito, non sapevamo dov’era diretto, è salito in macchina e noi ci siamo messi come criminali a inseguirlo. Arrivati alla stazione di risalita, abbiamo posteggiato. C’era tanta gente, molti reporter inglesi di quei giornali scandalistici, tipo “Sun” eccetera. Ed io mi sono messo in colonna… Caso vuole che però nella cabina me lo sono ritrovato proprio in faccia! Ma eravamo talmente incassati che non sono riuscito nemmeno a scattare una foto! In compenso ha cominciato a parlare con me. Ha capito che non ero inglese, anche se con quello che ho imparato alla Scuola Club Migros, mi sono arrangiato. Quando siamo arrivati in cima, gli inglesi mi sono saltati addosso: “Cosa ti ha detto? Con noi non parla mai…”. Mah, ho avuto fortuna? Sfortuna?».
Un altro incontro ravvicinato da ricordare è quello con Ronald Reagan, allora presidente degli Stati Uniti, nel parco delle Nazioni Unite a Ginevra, oppure quello con lo scià di Persia a St. Moritz, e a Roma con i Papi Ratzinger e Bergoglio.
Concludiamo l’incontro con una riflessione sul passaggio della professione al digitale. Un passaggio che, secondo Karl, ha comportato innegabili vantaggi pratici, ma che in buona sostanza ha abbassato il livello qualitativo del lavoro fornito, in quanto ormai nell’ambito professionale si trovano a operare numerosi fotografi che non hanno un granché di preparazione e di sensibilità alla materia fotografica.
E più in generale, in questa epoca digitale, si scatta troppo e non si stampa più: «Questa è una cosa che rimpiango molto, che non ci sono più le stampe. Tanta gente non sa nemmeno più cosa sia un album, che è una cosa bellissima, e scattano come condannati, col cellulare, immagini che non vedranno mai stampate. È un gran peccato. Io dico sempre: quell’affare lì è un telefono, non una macchina fotografica, anche se dà ottimi risultati. Finiremo come i giapponesi, a vedere la Svizzera rettangolare, capisci?». Capisco, e condivido. E su questo, decidiamo di passare all’aperitivo.