La «Flotilla» ostinata verso Gaza, così funziona la macchina degli aiuti

Il 4 settembre la più grande mobilitazione pacifica di imbarcazioni umanitarie, partite finora da Italia e Spagna, avrebbe dovuto incontrare il resto della flotta in partenza dalla Tunisia. Le tempeste e le condizioni meteo avverse hanno costretto però una parte della flotta a un arresto tecnico a Minorca, come ha spiegato il 3 settembre Yasemin Acar, attivista tedesca ed ex membra della missione Madleen (nave intercettata e abbordata in acque internazionali, a oltre 100 miglia nautiche dalla costa di Gaza, lo scorso 9 giugno). Superata la sosta forzata, le imbarcazioni riprenderanno la rotta verso Gaza, con l’obiettivo dichiarato di rompere il blocco israeliano e portare aiuti umanitari alla popolazione allo stremo.

La mobilitazione della Global Sumud Flotilla ha visto negli ultimi tempi decine di migliaia di persone scendere nelle piazze e nei porti d’Europa, segno che esiste ancora spazio per l’umanità e la solidarietà dal basso. Imbarcazioni civili, cariche di cibo e beni essenziali destinati a chi, secondo le Nazioni unite, sta morendo di fame. Nel frattempo, non si sono fatte attendere le minacce del ministro israeliano Itamar Ben-Gvir, che ha dichiarato che gli equipaggi della Global Sumud Flotilla verranno trattati come terroristi. Di fronte a tali avvertimenti, Emergency ha scelto di navigare al fianco della flotta civile. Tra tutti gli episodi che hanno accompagnato la partenza della flotta, quello avvenuto a Genova nell’ultima settimana di agosto ha avuto un carattere davvero eccezionale. In soli cinque giorni sono state raccolte 200 tonnellate di generi alimentari, contro le 40 inizialmente previste. I prodotti sono stati poi inscatolati dai volontari e dalle volontarie e caricati sulle navi, che hanno salpato dal Porto antico accompagnate da una fiaccolata: 50 mila partecipanti hanno attraversato la città, dalla base di Music For Peace fino al centro, passando lungo la Sopraelevata.

Arrivo come tante altre persone con lo zaino in spalla, alla fine di una giornata di lavoro, senza essere ancora passata dall’alloggio che un’amica ticinese mi ha messo a disposizione mentre si trova in Grecia. Per farmi largo dico che mi manda Marco, della comunità San Benedetto al Porto, fondata da don Andrea Gallo, il prete di strada amico di De André, dei tossicodipendenti e delle donne trans. Di Marco non conosco nemmeno il cognome, l’ho incontrato solo quella mattina, ma il suo nome basta a farmi guadagnare velocemente metri dentro il centro comunitario nato dalla riqualificazione di un’officina abbandonata. L’importante è non interrompere il flusso. «Puoi iniziare subito?» – «Sì» – «Allora trova una persona esperta che ti mostri come fare i pacchi». Entro in un grande spazio che scoprirò solo nei giorni successivi essere solitamente il teatro. Non sapendo qual è il volto di una persona esperta, mi rivolgo alla più vicina, Cinzia. È lì dalla mattina, si prende un attimo per spiegarmi. Mi mette in mano una busta spessa di plastica e mi indica come riempirla: quattro lattine di pomodori pelati, quattro di legumi, due chili di farina, due di zucchero, un vasetto di marmellata o miele, un pacco di biscotti, due chili di riso, sei scatolette di tonno (o tre grandi), pasta a volontà. Cinzia mi confida che i formati più utili sono spaghetti e pastina, ideali per «riempire i buchi» nella scatola.

La scatola, 30×30 cm, deve essere compatta: niente vuoti, niente eccessi; prima di sigillarla, se necessario, vanno assestati due pugni. Ogni famiglia deve ricevere lo stesso contenuto, ricorda una voce metallica proveniente da un altoparlante che non so dov’è: «Meglio prendervi più tempo, ma riempite i pacchi con cura, è fondamentale anche per il trasporto». Ivano Pinizzotto, volontario di Music for Peace spiega: «Per il confezionamento dei pacchi ci siamo affidati a studi nutrizionali: alimenti primari, soprattutto carboidrati, che forniscono energia e resistenza. Carne o prodotti deperibili non possono viaggiare. Inseriamo solo un barattolo di miele o marmellata, per dare un segno di dolcezza, ma niente vetro ulteriore, troppo fragile. Tutto deve essere trasportabile, compatto, sicuro. È la concretezza che permette al progetto di continuare a camminare».

Music for Peace si trova accanto allo svincolo autostradale, a ridosso di un incrocio che porta dentro e fuori la città. L’edificio è incastonato in un anello della Sopraelevata, che gli gira intorno come un serpente. Da fuori sembra una base piratesca, con più anime: il campo sportivo, le terrazze, i palchi da concerto e oltre cinquanta stand polifunzionali. All’interno ha sede anche un ambulatorio medico popolare gratuito. Qui tutto si fonda sul riciclo e sul baratto. Davanti al centro i vigili faticano a regolare il traffico: le auto non smettono di arrivare, anche se la ricezione dei generi alimentari è stata sospesa per mancanza di spazio. Il magazzino è stracolmo. La sera del terzo giorno, si sono raggiunte le 140 tonnellate di prodotti raccolti: quasi quattro volte l’obiettivo iniziale di 40 tonnellate. Numeri che raccontano la portata del movimento, ma soprattutto l’onda di solidarietà che ha investito la città. Eppure, ciò che accade nei giorni di emergenza non è un’eccezione: Music for Peace vive di attività costanti ed è un luogo di coscienza collettiva. Qui si tengono dibattiti, incontri e presentazioni di libri, e ogni anno vengono organizzati due festival, a giugno e dicembre, con spettacoli, concerti e attività sportive e culturali distribuite negli otto spazi del centro. «Noi lavoriamo su tre ambiti di attività» racconta Ivano Pinizzotto, volontario storico. «La prima riguarda il territorio: persone segnalate dai servizi sociali del Comune di Genova vengono qui a fare la spesa. La seconda: tutti i sabati sera, che sia Natale, Pasqua o Capodanno, distribuiamo 130 pasti ai senza fissa dimora nel quartiere Principe. La terza linea è internazionale: portiamo aiuti all’estero. In Sudan, ad esempio, abbiamo inviato sette container prima dell’estate. Negli anni siamo stati operativi anche nei campi profughi del Saharawi, in Sud Sudan, negli anni Novanta in Bosnia Erzegovina e in Kosovo, più di recente in Ucraina, Iraq, Kurdistan, Afghanistan e Sri Lanka. E c’è sempre stata una presenza a Gaza: dal 2004 si contano tredici missioni».

Come distribuire gli aiuti? Come affrontare chi vorrà affidare i bambini ai volontari? E come gestire chi vorrà scappare dalle bombe? Preoccupazioni che hanno però lasciato spazio a numerosi interventi che hanno animato il centro comunitario prima della partenza delle navi dal porto di Genova, sabato 30 agosto. Il microfono era libero, il palco gestito dalle Brigate Rosa di Como, numerosi gli interventi e in chiusura le parole di Adelmo Cervi. Quei discorsi hanno momentaneamente spazzato via le paure e consolidato la determinazione: la speranza di raggiungere la destinazione – prevista tra una decina di giorni – è rimasta la principale guida per tutti e tutte. Quando andavamo in stampa, giovedì scorso, si attendeva che l’Italia e l’Unione europea accogliessero l’invito della popolazione a seguire l’esempio della Spagna, che ha garantito protezione diplomatica a tutte le sue cittadine e i suoi cittadini in viaggio. Tra le cinque imbarcazioni svizzere salpare con una cinquantina di persone a bordo, figurano due ticinesi: Vanni Bianconi, già direttore di Babel, e Fabrizio Ceppi, membro del comitato di Chiasso Letteraria. Da più parti si sollecita il Consiglio federale a difendere, con parole e fatti, i diritti delle proprie cittadine e dei propri cittadini e a contribuire a porre fine al genocidio in corso.

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