L’artista portoghese Joana Vasconcelos è protagonista al Museo d’Arte Moderna di Ascona
Basta solo accennare a qualche sua notizia biografica per comprendere la caratura dell’artista portoghese Joana Vasconcelos: presente a tre edizioni della Biennale d’Arte di Venezia e prima donna a essere rappresentata alla Reggia di Versailles e al Guggenheim Museum di Bilbao.
E basta solo accennare a un paio di opere, tra le più conosciute e iconiche, per comprendere la portata del suo lavoro sovversivo, beffardo e perturbante: scegliamo A Noiva, un gigantesco lampadario in stile Impero composto da quattordicimila assorbenti interni intrecciati tra loro con fili di metallo, e Marilyn, un monumentale paio di scarpe a tacco alto realizzato con centinaia di pentole e coperchi in acciaio.
Sebbene deliberatamente spettacolari, ampollose e dall’incisività estetica fuori dal comune, le creazioni di Vasconcelos affrontano tematiche importanti, spesso spinose e controverse, legate all’identità femminile, al consumismo e alla memoria collettiva. La loro frivolezza è solo apparente poiché l’ironia e l’ambiguità con cui ci vengono presentate, in un gioco ben riuscito di disputa tra gli opposti, agisce come potente dispositivo di smascheramento sociale. L’artista smantella così convenzioni, credenze e luoghi comuni, demolisce stereotipi e tabù con il preciso obiettivo di osteggiare ogni forma di autoritarismo, di discriminazione e di emarginazione.
Mai si è dichiarata attivista, eppure Vasconcelos, nata a Parigi nel 1971 da genitori lusitani in esilio e naturalizzata portoghese, così sottolinea il suo impegno nella sfida ai paradigmi di genere: «Anche se non prendo parte a battaglie ideologiche, continuerò a essere femminista finché non sarà raggiunta una vera uguaglianza. È una questione di giustizia, non di identità».
Veri e propri melting pot di codici espressivi eterogenei, di materiali disparati e di linguaggi e suggestioni culturali differenti, le opere dell’artista diventano luoghi di metamorfosi e trasmutazione, punti di partenza per indagare idee, percezioni ed esperienze di vita lontano da resoconti artefatti.
Pungente, provocatoria ed eccessiva, Vasconcelos non a caso ama senza riserve il barocco, «uno stile che abbraccia il dramma, l’emozione, l’ornamento, l’esuberanza e la teatralità», riproponendone nei suoi lavori la carica vitale in maniera tanto sfacciata quanto intima e popolare. E se molti non hanno mancato di etichettare la sua arte come kitsch, a contraddirli sono sempre state le opere stesse, affamate di una fruizione personale che non necessita di classificazioni assolute di gusto.
È così che l’artista mette in scena creazioni sorprendenti in grado non solo di catturare immediatamente lo spettatore, ma anche di instaurare con lui un dialogo intenso e duraturo, disorientandolo, sconvolgendolo e spronandolo a confrontarsi con la complessità dell’esistenza. I suoi lavori richiedono tempo per essere ben compresi, perché, al di là del fulmineo appagamento visivo che ci regalano, esigono una lettura stratificata che fa dell’iniziale spaesamento l’incipit di una conoscenza piena del loro significato.
È proprio ciò che accade nella mostra allestita presso il Museo d’Arte Moderna di Ascona, dove il poliedrico universo di Vasconcelos si dispiega in tutto il suo vigore cercando una profonda interazione con il visitatore. La rassegna, curata da Mara Folini e Alberto Fiz, è la prima personale che un’istituzione pubblica svizzera dedica all’artista portoghese e presenta una trentina circa di lavori, tra installazioni, dipinti, disegni, video e libri, atti a raccontare le tappe principali del suo cammino creativo a partire dagli anni Novanta.
Percorrendo gli spazi dell’edificio espositivo contaminati e riplasmati dalla presenza delle poderose opere dell’artista, appare evidente come Vasconcelos sia capace di riattivare il banale per tramutarlo in uno strumento di narrazione poetica e politica. Nelle sue mani ciò che appartiene alla sfera del quotidiano viene utilizzato per innescare una reinterpretazione simbolica del reale. La rivoluzione dell’artista parte così da forchette di plastica, da piumini da spolvero, da mobili desueti e da tutti quegli oggetti che fanno parte della nostra vita di tutti i giorni, in un inno all’estetica popolare e alla cultura domestica: «Mi interessa la trasformazione dell’ordinario in straordinario», sottolinea Vasconcelos.
Sulla scia del ready-made di Marcel Duchamp, l’artista mette in pratica una sua peculiare prassi del recupero che, seppur meno intrisa di intellettualismo rispetto a quella del suo illustre predecessore francese, sottrae gli oggetti al loro contesto d’origine per riconsegnarceli muniti di una nuova destinazione e di un nuovo senso. Vasconcelos attua una sorta di palingenesi di questi elementi, colmandoli di memorie, di identità e di storie collettive: trasfigurandoli in presenze solide e raggianti, li riedifica nella loro accezione e li colloca in un’inedita dimensione visiva fatta di emozione e intuizione.
Per dare vita alle proprie opere utilizza «un approccio da bottega», in cui la sua creatività procede a stretto contatto con il sapere manuale in varie discipline. La sua è una visione democratica e collegiale della produzione artistica che riconosce il grande valore del mestiere artigianale. Sono soprattutto le pratiche tradizionali femminili a interessare Vasconcelos, come il crochet ad esempio, un linguaggio con radici antiche tramandato da generazioni di donne. Per l’artista la lavorazione all’uncinetto è uno strumento di emancipazione che incarna la resilienza. È atto politico, è resistenza culturale, è gesto sovversivo che rappresenta un omaggio, ma ancor più un risarcimento, a una tecnica prettamente muliebre dimenticata per secoli e mai considerata una forma d’arte vera e propria.
Ad aprire l’esposizione asconese è Wash and Go (1998), un’installazione composta da due rulli meccanici, ricoperti da collant colorati, che ricordano un autolavaggio: il visitatore è chiamato a passarci attraverso compiendo un simbolico rituale di purificazione necessario per mondare la mente dai preconcetti e accettare la sfida di mettersi in discussione.
Entrati metaforicamente e fisicamente nel mondo dell’artista, appare ai nostri occhi una scultura alta dieci metri, realizzata con broccati, velluti, ricami e lustrini, che percorre dall’alto in basso l’intero edificio. Ispirata alle Valchirie, nella mitologia nordica le vergini divine al servizio di Odino, l’imponente opera tessile celebra la forza della donna e, in particolare, quella di una figura femminile coraggiosa e visionaria che è stata fondamentale per l’istituzione del Museo di Ascona, Marianne Werefkin. Da qui l’emblematico titolo La Baronessa dato a questo lavoro, un richiamo all’appellativo attribuito alla pittrice russa per le sue nobili origini.
I maestosi gioielli a forma di cuore costruiti con posate di plastica traslucida (Coração Independente Vermelho), le vetrine piene zeppe di oggetti datati (Vista Interior), i letti composti interamente da blister di medicinali (Cama Valium), i divani fatti di fiori di plastica che emanano uno sgradevole odore di naftalina (Brise), gli elettrodomestici degli anni Cinquanta su cui poggiano pellicce dall’olezzo acre (Menu do Dia), i grandi seni realizzati all’uncinetto (Big Booby) e i vecchi mobili avvolti da tessuti dalle tinte sgargianti (Stupid Furniture) sono «esperienze vissute, rivestite di forma e di sentimento», come definisce Vasconcelos i propri lavori. Opere in cui il convenzionale si fonde con lo stupefacente, il reale con l’immaginario, il colto con il popolare, il particolare con l’universale, per dare vita a un universo dal monumentale e coloratissimo impeto simbolico.