Entrati in un museo capita che percepiamo gli oggetti esposti, che siano manufatti di popoli lontani, reperti archeologici o dipinti rinascimentali, come muti custodi di mondi a noi inaccessibili. Ma negli ultimi anni le cose stanno cambiando radicalmente: sempre di più i luoghi di cultura stanno mettendo in atto nuove modalità di comunicare il patrimonio culturale ai loro pubblici, cercando un legame più intimo e meno istituzionale, per risvegliare la capacità di meravigliarsi, facendo leva sulle emozioni e non solo sulla trasmissione di conoscenze storico-artistiche. Che cosa fare perché il patrimonio, che appartiene a ognuno di noi, torni a parlare a tutti?
Le risposte possibili in due recenti saggi, che fanno il punto in particolare sul patrimonio culturale italiano. Perché proprio nella ricchissima Italia, «anche se forse siamo i più bravi a conservare, tutelare e restaurare, non abbiamo ancora imparato a interpretare, ovvero a connettere i luoghi con le persone in visita», scrive Giovanni Carrada nel suo Perché non parli? (Johan e Levi, 2025), un libro che non è un manuale, ma piuttosto un vademecum per una nuova museologia.
Una museologia che implica un cambiamento di atteggiamento da parte di chi gestisce i luoghi del patrimonio culturale; curatori e conservatori sono chiamati oggi a mettersi nei panni dei visitatori, a imparare «a non sapere nulla», o almeno a non sapere tutto, cercando di capire che cosa può attirare e interessare il pubblico, cosa può essere rilevante, mettendo in evidenza che cosa ci collega a quello che vediamo. Nella recente mostra ai Musei capitolini di Roma dedicata al grande scultore greco Fidia era esposta un’epigrafe con un’iscrizione che conteneva i rendiconti delle spese per la costruzione della colossale statua di Atena Promachos, probabilmente – sottolinea Carrada – il caso più antico di accountability giunto fino a noi, con cui si rendeva pubblicamente conto dell’utilizzo dei soldi pubblici.
Relazione e connessione sono i concetti fondamentali attorno ai quali ruotano i contributi del volume Fare nuove le cose. Patrimonio culturale e narrazione, uno sguardo multidisciplinare (Mimesis, 2024), una nuova tappa nel percorso delle museologhe Simona Bodo e Silvia Mascheroni e della consulente teatrale Maria Grazia Panigada, che da anni sviluppano e sperimentano sul campo un metodo nuovo, basato sulla costruzione di narrazioni autobiografiche del patrimonio. Perché narrare significa «dare nuovamente origine alle cose». Le cose ci chiedono continuamente di essere reinterpretate: e se «vedere è già capire», «nulla in un museo parla da sé» e anche le parole servono per raccontare l’opera d’arte, parole che non devono limitarsi a ricostruirne storia, significati e contesto, ma devono accogliere i rimandi ai ricordi e ai sentimenti privati di ognuno, o raccontare il rapporto con la memoria collettiva.
Significativo in questo senso è il progetto Fabbriche di storie, percorso audio in cui operatori museali e cittadini stranieri residenti in Italia hanno scelto di raccontare dodici capolavori della collezione degli Uffizi di Firenze – dalla Primavera di Botticelli alla Sacra Famiglia di Luca Signorelli – intrecciandone la storia al loro vissuto e alla loro cultura: testi in cui emergono temi universali quali la famiglia, la preghiera, l’amore. Perché i musei, i luoghi del patrimonio, non sono asettici depositi di oggetti e mirabilia, né tantomeno spazi neutrali o separati dalla comunità, ma piuttosto «ecosistemi complessi e dinamici», in cui ci si dovrebbe interrogare anche su chi si è e su chi è l’altro – inteso come il tempo della storia, o il punto di vista altrui –, e ci si assume una responsabilità sociale.
Dare la parola a persone non «addette ai lavori» – come è accaduto nel progetto Individually together della GaMec (Galleria di arte moderna e contemporanea) di Bergamo che ha coinvolto studenti delle superiori e detenuti – non è un atto scontato, perché si tratta anche di fare i conti con la resistenza degli specialisti che però possono cogliere in questi percorsi alternativi, che fanno leva su emozioni e vissuto, una rinnovata capacità di meraviglia (e di lettura dell’opera). La stessa meraviglia che ha provato Maida, una studentessa straniera, di fronte a un’antica mappa di Bergamo: «Quando ho visto la tua mappa, Bergamo, per la prima volta mi ci sono rispecchiata dentro. Ho rivissuto un mio viaggio nel tempo, nella memoria, che dura da più di ventisei anni, e ho realizzato all’improvviso che sei il luogo dov’è casa mia!».
Inoltre, sembra che la narrazione abbia il potere di cambiare sia chi ascolta sia chi narra, come dimostrano le testimonianze dei volontari coinvolti in progetti di intermediazione culturale, raccolte nell’ultimo capitolo del libro, che illuminano i capitoli precedenti, più teorici, firmati da antropologi, sociologi, museologi e pedagoghi. Medico in pensione, ora volontaria e narratrice per il progetto Lascio in eredità me stessa alla terra, Tiziana scrive: «Quello che ci insegna questo progetto, quello che ho imparato, è che nei rapporti con le persone ciò che conta davvero è saper ascoltare».