«Fin del mundo», ripetono le insegne di Ushuaia fino allo sfinimento – anche se, dall’altra parte del canale di Beagle, la cilena Puerto Williams avrebbe qualcosa da obiettare. Ma il Penal, quello sì, è un’esclusiva della città argentina, una prigione dove la fine del mondo era purtroppo un’esperienza quotidiana.
L’idea di una colonia penale nella Terra del Fuoco nacque nel 1882, un anno dopo la firma del Trattato sui Confini con il Cile. Esistevano già due simili esempi, di successo, nel mondo: la Francia aveva colonie penali in Nuova Caledonia e in Algeria e l’Inghilterra ne aveva una in Australia. Nel 1883, il presidente argentino Roca presentò al Senato un progetto di legge per la creazione di una Colonia penale a sud del Paese. Gli obiettivi erano risolvere il problema penitenziario e proteggere la sovranità attraverso un insediamento effettivo in quei territori lontani. L’anno successivo partirono i primi detenuti e fu fondata la città di Ushuaia, insieme alla creazione del Governo della Terra del Fuoco.
Prima di stabilirsi definitivamente a Ushuaia, il presidio aprì una sede provvisoria sull’Isla de los Estados. Nel 1902 fu trasferito con una prima fase a Puerto Golondrina, e infine a est della cittadina di Ushuaia, che allora consisteva in poco più di quaranta abitazioni.
La costruzione dell’edificio attuale, a opera degli stessi detenuti, iniziò nel 1902 e durò 18 anni. Il primo padiglione fu il numero I; detto «Historico», era fatto di legno e lamiere e disponeva di sole otto celle.
I lavori nel bosco iniziavano la mattina presto e alcuni prigionieri si fermavano per la notte nell’accampamento di Monte Susana per risparmiare tempo. Erano detenuti privilegiati che cucinavano i propri pasti e godevano di una certa libertà all’aria aperta, soprattutto nelle lunghe giornate estive. Il resto dei prigionieri veniva portato su un piccolo treno a bordo di carri aperti, strettamente sorvegliati da guardiani armati. Rimanevano tutto il giorno nei boschi a tagliare alberi, poi caricavano la legna da ardere ottenuta e tornavano a piedi o sugli stessi carri, se c’era un po’ di spazio.
La struttura finale del carcere, a raggiera, comprendeva cinque padiglioni, ognuno dei quali si diramava da un punto centrale e disponeva di 79 celle singole, anche se nei periodi più affollati il carcere arrivò a ospitare tra i 600 e gli 800 detenuti.
Con il passare del tempo vi furono inviati individui colpevoli di gravi reati, molti dei quali condannati all’ergastolo o a lunghe pene: il sistema in vigore si basava sul lavoro a vita con un salario infinitesimale.
A Ushuaia il vento sferza incessante, la neve ricopre ogni cosa per gran parte dell’anno e durante l’inverno il sole si mostra appena, timido tra le nubi. In questo scenario inospitale, stretto tra il confine argentino, il Canale di Beagle e il Cile, la prigione era un edificio tetro e imponente che sembrava sfidare la natura stessa.
Le condizioni di vita all’interno del carcere erano durissime. Le celle, fredde e umide, offrivano scarso riparo dal clima rigido. L’amministrazione assegnava a ogni nuovo prigioniero un bancale da utilizzare come letto, insieme a un materasso, tre coperte di lana e un cuscino, un numero limitato di stoviglie e posate per mangiare e bere, due asciugamani e due indumenti per soggetto. Nel caso in cui il prigioniero consumava più capi di abbigliamento della quantità annuale stabilita, doveva fornire una buona giustificazione, altrimenti era costretto a pagarli con i suoi risparmi. Non era concesso avere altri beni, tranne per coloro ai quali, per buona condotta, era permesso tenere in cella libri, materiale di studio, tabacco, zucchero e yerba mate; costoro potevano anche svolgere dei lavori pagati nel poco tempo libero.
Il cibo era insufficiente e la disciplina ferrea. Esistevano tre tipi di razioni: per i malati, prescritte dal medico; per coloro che svolgevano un lavoro fisico attivo; e una razione di conservazione per coloro che, a causa di difetti fisici o malattie, non svolgevano un lavoro «produttivo». Da regolamento, i pasti erano serviti due volte al giorno, la colazione era un privilegio di chi svolgeva le attività più dure. I dipendenti della prigione ricevevano lo stesso cibo dei detenuti, anche se di solito le porzioni erano più abbondanti.
La prigione aveva trenta diverse aree di lavoro, alcune delle quali si trovavano al di fuori dei confini del carcere. Le officine si occupavano delle necessità della prigione e fornivano all’intera città di Ushuaia servizi come tipografia, telecomunicazioni, elettricità, persino una stazione dei pompieri. Fuori dal carcere, i detenuti erano utilizzati per costruire strade, ponti, edifici e per la lavorazione del legname.
Il Codice imponeva ai detenuti l’obbligo di lavorare e in generale il lavoro era preferito al rimanere confinati in cella tremanti per il freddo. Le attività da svolgere erano assegnate al mattino e per tutto il giorno i guardiani, muniti di fucile e baionette, seguivano i detenuti circondandoli in cerchio a una distanza di circa dieci-quindici metri.
Nel 1947, il presidente argentino Juan Perón decretò la chiusura del carcere di Ushuaia, mettendo fine a un capitolo controverso della storia argentina.
L’edificio fu trasformato in Museo Marittimo, un luogo dove la memoria del passato si intreccia con la storia della navigazione e dell’esplorazione della Terra del Fuoco. Oggi il museo custodisce la storia locale attraverso esposizioni di modellini navali, reperti delle esplorazioni antartiche e ricostruzioni delle celle, offrendo uno sguardo tanto sulla navigazione quanto sulla vita dei detenuti. La cittadina di Ushuaia vive la memoria della prigione in un equilibrio tra turismo e ricordo: il passato carcerario, pur cupo, è parte integrante dell’identità della città, attirando visitatori curiosi di conoscere la storia di questo luogo remoto, mentre i residenti ne preservano la memoria con un misto di orgoglio e rispetto per le sofferenze del passato.
Volti dall’ombra: storie di prigionieri
Il Penal de Ushuaia fu teatro di vicende umane estreme, dove spietatezza e disperazione si intrecciarono a tenacia e spirito di sopravvivenza.
Nel 1912, Buenos Aires fu sconvolta da una serie di efferati omicidi di minori culminati con l’arresto di Cayetano Santos Godino, un sedicenne noto come Petiso Orejudo («Piccolo orecchiuto») per via del suo aspetto. Alla stampa dichiarò che «la mattina, dopo i brontolii di mio padre, uscivo di casa per cercare lavoro, e se non lo trovavo allora cercavo qualcuno da uccidere». Trasferito in seguito alla prigione di Ushuaia, Godino vi trascorse il resto della sua condanna fino alla morte, avvenuta tra quelle mura nel 1944.
Simón Radowitzky, giovane anarchico di origini russe, divenne noto per l’attentato dinamitardo che uccise il capo della polizia Falcón e il suo segretario a Buenos Aires. Condannato a una pena indeterminata, subì severe restrizioni, tra le quali isolamento forzato e dieta punitiva. Sfuggì alla pena di morte grazie alla giovane età e trascorse 21 anni in carcere, di cui la maggior parte nella prigione di Ushuaia e dieci in isolamento, i restanti in condizioni particolarmente dure (pane e acqua per venti giorni all’anno in occasione dell’anniversario di morte delle sue vittime).
Plinio Palma, politico e giornalista cileno e oppositore del regime di Pinochet. Fuggito in Argentina, fu catturato e rinchiuso a Ushuaia come prigioniero politico. La sua detenzione fu un simbolo della repressione che colpì il Sud America negli anni della dittatura e la sua liberazione, una vittoria della lotta per i diritti umani, fu ottenuta grazie alle pressioni internazionali.
E infine Pasqualino Rispoli, una figura avvolta nel mistero e nella leggenda, soprannominato «l’ultimo pirata della Patagonia». Rispoli, di origine italiana, arrivò in Argentina all’inizio del XX secolo e si diede ai furti, al contrabbando e ad atti di pirateria. Per la sua abilità nel navigare i mari della Patagonia e la sua audacia nel compiere le sue imprese fu temuto e ammirato allo stesso tempo. Catturato e rinchiuso a Ushuaia, Rispoli continuò a far parlare di sé, rappresentando un simbolo di ribellione.