Il comico più famoso che nessuno conosce

by Claudia

Vite da ridere (o quasi): Roscoe «Fatty» Arbuckle, da gigante del cinema comico muto, al pari di Chaplin si trasformò in pochi giorni nel simbolo della gogna mediatica

Nel 1921 Roscoe «Fatty» Arbuckle era all’apice della sua carriera: contratto da tre milioni con la Paramount, oltre 150 film all’attivo, una villa da mille e una notte, auto di lusso e una popolarità pari solo a quella di Chaplin. Ma quando quell’anno fu accusato di aver causato la morte di una giovane donna, la sua carriera si dissolse in pochi mesi, vittima di stampa scandalistica, moralismo e ambizioni politiche. Una parabola che resta un monito potente su quanto sottile possa essere il confine tra celebrità e dannazione.

Negli anni Dieci del Novecento, se aveste chiesto a un americano chi fosse la più grande star del cinema, molti avrebbero risposto Fatty Arbuckle. Con Chaplin condivideva la fama, con Buster Keaton l’intesa artistica. La sua comicità giocava con la fisicità corpulenta, ma si distingueva per l’agilità sorprendente e la raffinata costruzione dei personaggi.

Arbuckle era un innovatore. Conosceva la macchina da presa, sperimentava, aveva cominciato a portare sullo schermo una comicità più umana e meno farsesca. Fu inoltre lui a far debuttare Buster Keaton, riconoscendone il talento e costituendo con lui la più divertente coppia comica del muto, sciogliendosi simbolicamente proprio nell’anno del formarsi di quella per antonomasia, Stanlio e Ollio, come a passargli il testimone. Ma la gloria ha spesso un prezzo. E nel caso di Arbuckle fu altissimo.

Nel settembre del 1921, Fatty organizza una festa in un albergo di San Francisco per celebrare il rinnovo del suo contratto milionario. È il weekend del Labor Day, e nonostante il proibizionismo, l’alcol scorre a fiumi. Tra gli invitati c’è Virginia Rappe, ex modella e aspirante attrice, accompagnata da Maude Delmont, donna ambigua che aveva appena conosciuto. Durante la festa, Rappe si sente male, finendo in preda a dolori lancinanti all’addome. Morirà pochi giorni dopo in ospedale.

Delmont accusa Arbuckle di averla aggredita sessualmente. Nessuno ha visto nulla, ma la stampa si scatena. William Randolph Hearst, deus ex machina del giornalismo scandalistico dell’epoca, trasforma l’evento in una saga nazionale. In un solo giorno, il suo «Examiner» pubblica diciassette articoli sull’affaire Arbuckle.

La verità diventa del tutto secondaria in questa faccenda: non ci sono testimoni, ma ben presto si diffonde il racconto di dettagli raccapriccianti, dalla morte per schiacciamento (come abbiamo detto Fatty era… tale), a sevizie sessuali praticate con bottiglie, e chi più ne ha più ne metta.

Il procuratore distrettuale Matthew Brady vede nel caso l’occasione perfetta per lanciare la sua carriera politica. Porta Arbuckle in tribunale con l’accusa di omicidio colposo. Seguiranno tre processi. Il primo si conclude con un nulla di fatto. Il secondo sfiora la condanna. Il terzo, finalmente, lo assolve pienamente, anzi la giuria dichiara Arbuckle vittima di una «grande ingiustizia». Ma è troppo tardi: la Paramount lo ha scaricato, i suoi film sono spariti dalle sale, gli «amici» si sono dileguati. Solo Chaplin e Keaton gli sono restati accanto.

Ma non basta.

Proprio l’affaire Arbuckle cambierà Hollywood per molti decenni a venire. I grandi studios, terrorizzati, introducono le famigerate «clausole di moralità» nei contratti. E per tutelare l’immagine dell’industria, assoldano un «moralizzatore» nella persona di Will Hays, un politicante in realtà tutt’altro che integerrimo, che come sua prima decisione bandisce proprio Arbuckle da ogni produzione.

Quello che travolge il povero Fatty, è il primo grande scandalo mediatico dell’era del cinema. E sarà anche il primo a insegnare a Hollywood come gestirli, manipolando la verità e sacrificando carriere e persone.

Roscoe attraversa anni di ostracismo, lavorando sporadicamente con lo pseudonimo «William Goodrich» – il nome del padre, che lo aveva maltrattato da bambino – come regista di film comici, spesso grazie a Keaton. Ma è l’ombra di sé stesso. Vuole tornare a recitare, l’alcol lo consuma.

Nel 1933, finalmente la svolta: viene richiamato dalla Warner Bros per tornare sul grande schermo come attore nel remake di Brewster’s Millions, un suo successo del 1921 (oggi andato perduto). È finalmente felice. La sera prima delle riprese esce a festeggiare con la moglie. Poi torna a casa e si mette a dormire. Non si risveglierà mai più. Ha solo 46 anni.

Oggi il suo nome è per lo più dimenticato. E quando viene ricordato, è spesso legato al processo, non alla sua incredibile arte. La sua è la storia di un’epoca che cambiava: tra jazz e proibizionismo, tra libertà e repressione. È anche la storia, molto attuale, di un artista che fece ridere milioni di persone, ma che non riuscì a difendersi dal bisogno collettivo di trovare un colpevole. E il suo volto, paffuto e dolce, divenne il bersaglio perfetto.