A volte gli animali leggono gli umani meglio degli umani stessi. I cani ad esempio ti guardano e, senza parole, capiscono, vedono e sentono quando non stai bene e ti si accucciano accanto.
Quanti di noi sono in grado di percepire il dolore degli altri con la stessa sicurezza e, soprattutto, quanti di noi hanno poi l’istinto automatico delle bestie per la solidarietà e la consolazione di chi soffre?
Fatto sta che svolgono con commovente premura il ruolo di spugne emotive e calmano i loro «umani» attraverso il tiepido contatto del corpo. Grazie a loro impari che se qualcuno non sta bene non devi cercare le parole, ma esserci e far sentire il calore delle mani, toccare ed essere toccato. Nulla è più consolatorio del tatto. Sfiorare, stringere, abbracciare, massaggiare, accarezzare: l’alfabeto della cura è questione di pelle. Le bestie lo sanno, gli uomini mica sempre.
Alcune foto apparse su «Le Monde» e «Avvenire» (e su molti altri media) mostrano i cittadini ucraini per le strade distrutte della città o infrattati nei sottoscala delle metropolitane che si portano appresso cani e gatti domestici durante le fughe o nei ripari sotterranei. Un servizio dell’emittente turca TRT World ha dal canto suo mostrato come alcuni abitanti di Gaza frequentino un caffè dove possono accudire i gatti randagi della martoriata regione. Uno spazio di sollievo dentro l’inferno, soprattutto per i bambini.
Insomma, gli animali domestici sono una risorsa di calore paradossalmente «umano», che basterebbe, da sola, a giustificare gratitudine incondizionata nei loro confronti.
Non intendo abbellire la natura selvaggia, retta da sempre dalla legge del più forte. La dolcezza dei selvatici è l’altro lato della medaglia dell’istinto predatorio alla base della sopravvivenza. Ammiro gli etologi che fraternizzano coi gorilla, i naturalisti che stringono rapporti improbabili con grandi felini. Un po’ meno gli erpetologi che tengono in casa serpenti più o meno velenosi da sfamare con topolini vivi. Ma non li imito. Preferisco farmi consolare da un barboncino piuttosto che da un boa constrictor.
Così, sono rimasto un po’ perplesso quando ho letto le reazioni degli ambientalisti americani per l’inaugurazione della famosa prigione «Alcatraz Alligator», il centro di detenzione per migranti costruito in Florida in mezzo a una palude circondata da animali, come appunto alligatori che da quelle parti possono essere lunghi più di 4 metri, pitoni e altre creature magnifiche ma pericolose, potenzialmente letali, per gli esseri umani.
Mentre mezza America esultava per la rude operazione di dissuasione psicologica all’immigrazione e una buona parte s’indignava per il trattamento dei detenuti – accatastati in stanzoni con letti a castello dentro gabbie coperte da teloni bianchi in mezzo a una natura brulicante di insidie – cosa inquieta gli ambientalisti americani? Il fatto che le autorità abbiano edificato la prigione dentro un ecosistema che ospita più di 2000 specie di animali e piante. Si sono radunati davanti alla prigione scandendo slogan come: «Non usate la natura come un’arma» o «Giù le mani dalla mia palude».
Non sono, quindi, i prigionieri a essere messi in pericolo dalla laguna infestata da animali selvaggi (in caso volessero tentare la fuga), ma gli animali stessi, o meglio l’ecosistema all’interno del quale vivono, a essere minacciati dalla presenza umana. A rigore è vero: povere bestie, andiamo a disturbarle perfino nei luoghi più invivibili del mondo, dove gli umani apposta rifiutano di installarsi. Ma l’argomento pecca di grossolanità: quella prigione deve essere tolta da lì non per lasciare in pace pitoni e alligatori, ma per rispetto della dignità umana degli incarcerati. Anche il mio cane lo avrebbe capito.