Il pacifismo sembra un azzardo, una provocazione, in questa fase di bellicismo diffuso. I pacifisti sono compatiti, accusati di vivere fuori dal mondo; nel caso migliore sono degli ingenui, in quello peggiore degli utili idioti, colpevoli di fare il gioco del nemico. Viviamo nell’era di un bismarckiano realismo, in una sorta di ritorno allo stato di natura in cui vige la legge del più forte, una condizione primitiva in cui l’uomo è lupo per l’altro uomo.
Dobbiamo rassegnarci e dunque armarci fino ai denti? Governi, diplomazie e stati maggiori hanno deciso di andare in questa direzione, e di conseguenza prepararsi alla guerra. Le spese militari stanno assumendo proporzioni spaventose, sottraendo risorse preziose a molti settori vitali della società, agli aiuti umanitari, ai programmi di cooperazione allo sviluppo. Ma qual è il nemico? È la Russia, le cui mire, dopo l’Ucraina, sembrano indirizzarsi verso i piccoli stati baltici? Sono forse le teocrazie del Medio Oriente, oppure la Corea del Nord, oppure ancora le cellule terroristiche per ora dormienti?
Riavvolgiamo il nastro. Dopo la Grande Guerra del ‘14-’18, il presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, propose di creare un’associazione sovranazionale, la Società delle Nazioni, «allo scopo di promuovere a tutti gli stati, grandi e piccoli indistintamente, mutue garanzie d’indipendenza e di integrità territoriale». Alla SdN aderì anche la neutrale Svizzera, una decisione avallata dal popolo, che si espresse con la scheda nel 1920. Il passo fu tuttavia sofferto, convinto nei cantoni latini (Romandia e Ticino), molto meno nella Svizzera tedesca: un’avversione radicata nell’opinione pubblica e che riaffiorò nel 1992 con il clamoroso no allo Spazio economico europeo.
Gli inizi della SdN furono incoraggianti, sulla base di una serie di trattati che si ripromettevano di riguadagnare al novero delle nazioni civili la Germania, nel frattempo diventata repubblica. Ma poi il suo potere negoziale venne meno, svuotato dall’uscita dei Paesi che si erano dati regimi dittatoriali: l’Italia, la Germania e il Giappone. In tale contesto anche la Svizzera si ritenne legittimata ad abbandonare l’istituzione nel 1938.
Nel 1945, al termine di una seconda, ancor più devastante, guerra mondiale, riemerse la medesima questione: come evitare una terza deflagrazione, che sarebbe stata, inevitabilmente, atomica? Ecco dunque rispuntare sulle ceneri della SdN una nuova istituzione, l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), con sede a New York, nel Palazzo di Vetro. Nobili gli intenti: salvaguardare la pace, promuovere la cooperazione internazionale, vigilare sul rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La Svizzera, guardata con sospetto, rimase alla finestra, confinata nel suo perimetro neutrale. Questa volta, per decidere quale strada imboccare, non fu necessario fare appello alle urne. Il leader della destra nazionalista James Schwarzenbach considerava l’ONU un club di negri, perlopiù corrotto («ein korrupter Negerclub»). La Svizzera rimase in questo stato limbale per decenni, con un plateale no ancora nel 1986, voto poi finalmente ribaltato nel 2002.
Oggi l’ONU conta 193 Stati-membri; vi partecipano anche nazioni in guerra tra loro, come la Federazione russa, l’’Ucraina, Israele, l’Iran, gli Stati Uniti, o Paesi che in vario modo affiancano i belligeranti sostenendoli con forniture d’armi, servizi d’informazione e reti satellitari. È un bel paradosso: un’istituzione nata per impedire sul nascere conflitti attraverso l’incontro, il dialogo, la conciliazione si ritrova impotente e agli occhi di molti inutile. Il tavolo c’è, ma è come se alcuni commensali non avessero nessuna intenzione di scambiare due parole con i dirimpettai a loro invisi…
Noi non sappiamo se il movimento pacifista riuscirà a ricondurre alla ragione i governanti che non vedono altra soluzione al di fuori dell’azione militare. Probabilmente no, visti i precedenti storici (il Congresso per la pace di Basilea del 1912 non riuscì a fermare la corsa verso l’abisso). Ma un pacifismo attivo, analitico, in grado di far emergere i costi, umani ed economici, politici ed ambientali, di ogni intervento armato, è più che mai necessario, e non ha nulla di ascetico. A suo tempo gli economisti Joseph Stiglitz e Linda Bilmes stimarono in tremila miliardi di dollari i costi autentici del (secondo) conflitto iracheno del 2003. Un libro rivelatore, disponibile anche in italiano (edito da Einaudi), ma che nessuno ricorda e cita. Purtroppo.