Sette anni fa Trump puntava a un accordo con Pyongyang per la denuclearizzazione. Oggi sarebbe impossibile
Se è vero che l’alleanza strategica fra Iran e Corea del Nord va avanti da diversi decenni, dopo l’attacco americano ai siti nucleari iraniani la leadership nordcoreana ha reagito con freddezza, condannando le azioni di America e Israele, definendole una grave violazione del diritto internazionale e dei principi della Carta delle Nazioni Unite in materia di sovranità e non ingerenza, senza però offrire un chiaro ed esplicito sostegno al regime iraniano.
Si è discusso molto, tra osservatori e analisti, della reazione tiepida da parte della leadership di Pyongyang, ma quasi tutti concordano nel constatare che la politica estera nordcoreana si è ormai definitivamente allineata a quella della Russia di Vladimir Putin. Come Mosca, Pyongyang non voleva mostrarsi troppo coinvolta nel conflitto, nonostante con Teheran condivida gli stessi nemici ideologici. A Seul, capitale sudcoreana dove si osservano più da vicino e con maggiore attenzione i cambiamenti e le decisioni del regime nordcoreano, l’aspetto più interessante della vicenda è piuttosto capire quali lezioni Kim Jong Un abbia tratto dall’attacco americano contro i tre siti nucleari iraniani. Secondo molti analisti di questioni nordcoreane, se l’obiettivo della seconda amministrazione Trump era quello di riaprire un dialogo diretto (fallito durante il precedente mandato) con il leader Kim Jong Un, il messaggio dei bombardamenti contro l’Iran ha avuto un effetto respingente, portando a una chiusura ancora più netta da parte della leadership nordcoreana. Perché c’è un dato che spesso, in Occidente, si dimentica: la Corea del Nord possiede già le armi nucleari. Il percorso intrapreso da Pyongyang è stato diverso da quello di Teheran soprattutto su un punto: mentre l’Iran, in una certa misura, ha aperto le porte agli ispettori dell’Aiea, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica dell’Onu – anche senza l’estrema trasparenza richiesta – la Corea del Nord si è ritirata dall’organizzazione nel 1994 e, sin dal 2009, non consente più all’agenzia di monitorare i propri impianti nucleari. Finora il regime ha effettuato sei test atomici: nel 2006 e nel 2009 sotto la guida di Kim Jong Il, e poi nel 2013, due volte nel 2016 e nel 2017 sotto l’attuale leader Kim Jong Un – lo stesso che, il 12 giugno 2018, ha incontrato per la prima volta un presidente americano in carica, Donald Trump, in uno storico vertice a Singapore. Da mesi si attende un settimo test nucleare, la cui preparazione, secondo immagini satellitari, è in corso da tempo.
Sette anni fa, il capo della Casa Bianca era convinto di poter arrivare a un accordo con Pyongyang per la «completa, immediata e verificabile denuclearizzazione», un principio cardine su cui si basano le relazioni diplomatiche nella regione dell’Indo-Pacifico. Ma quell’accordo non è mai arrivato, e da quando è tornato alla Casa Bianca, Trump ha parlato molto poco della Corea del Nord, quasi fosse consapevole del fallimento precedente.
Nel frattempo, l’attualità ha insegnato a Pyongyang che, per preservare la leadership della dinastia dei Kim – e ottenere l’effetto deterrente necessario contro eventuali attacchi o tentativi di regime change – l’unica strada è possedere l’arma nucleare.
«L’attacco del presidente Trump agli impianti nucleari iraniani senza dubbio rafforzerà ulteriormente la legittimità della politica di lunga data della Corea del Nord, che lega la sopravvivenza del regime allo sviluppo di armi nucleari», ha dichiarato alla CNN Lim Eul-chul, professore di Studi nordcoreani alla Kyungnam University, in Corea del Sud.
Pyongyang inoltre «percepisce il recente attacco aereo statunitense come una minaccia militare preventiva e probabilmente accelererà gli sforzi per rafforzare la propria capacità di attacchi missilistici nucleari preventivi». Il regime nordcoreano possiede già missili balistici a lungo raggio in grado di colpire qualsiasi punto del globo, compreso il territorio statunitense.
L’alleanza tra Corea del Nord e Iran ha origini lontane. Negli anni Ottanta, durante la guerra con l’Afghanistan, Teheran chiese aiuto al regime nordcoreano (e a quello siriano) per armarsi. Nel corso dei decenni, si è spesso parlato di una condivisione di tecnologie e know-how tra i due Paesi, soprattutto in ambito nucleare, ma la relazione è sempre stata di convenienza, quasi commerciale.
Oltre a uno sviluppo decisamente più avanzato di missili balistici e armamenti nucleari, la Corea del Nord ha anche un altro vantaggio rispetto all’Iran: la protezione garantita – soprattutto nell’ultimo anno – dalla Russia di Vladimir Putin.
Il 18 giugno dello scorso anno, infatti, il presidente della Federazione Russa e il leader nordcoreano hanno firmato un trattato di «cooperazione strategica», che è in sostanza un trattato di mutua difesa: significa che, se qualcuno dovesse attaccare la Corea del Nord, Mosca sarebbe teoricamente obbligata a intervenire in sua difesa. L’arma nucleare e la crescente collaborazione con la Russia – che include esercitazioni militari congiunte e sostegno tecnologico – rendono l’idea di un attacco americano alla Corea del Nord un incubo potenzialmente capace di scatenare «una guerra atomica su larga scala», secondo una fonte militare. Kim Jong Un sta aiutando Putin nella sua guerra in Ucraina con un coinvolgimento personale, esponendosi anche all’opinione pubblica interna: nelle scorse settimane la TV di Stato nordcoreana ha trasmesso le sue lacrime davanti alle bare dei soldati nordcoreani caduti in Russia, per una guerra che, tecnicamente, non è nemmeno la loro. Ma Kim aveva già deciso: il territorio russo è da considerare territorio nordcoreano.
«Ordino che il territorio della Russia sia considerato nostro territorio e che le azioni degli Stati Uniti e dell’Occidente, che violano la sovranità della Federazione Russa, siano considerate un’invasione della sovranità della nostra patria». L’alleanza tra Russia e Corea del Nord potrebbe essere persino più vitale dell’arsenale nucleare per Kim Jong Un.