I bombardameni israelinai e Usa alle infrastrutture nucleari rischiano di scatenare un effetto opposto a quello voluto
I bombardamenti israeliani e americani contro le infrastrutture del programma nucleare iraniano, votate a impedire o almeno a ritardare quello che si presume sia il tentativo di Teheran di dotarsi della Bomba atomica, ha scatenato per paradosso un effetto opposto.
Anzitutto, l’Iran sembra ormai lanciato verso la costruzione di un arsenale atomico militare, capace di sfidare quello israeliano, non dichiarato ma effettivo: almeno 90 gli ordigni stimati, tra cui quelli montati su sottomarini tedeschi di classe Dolphin, che garantiscono a Gerusalemme il secondo colpo nel caso lo Stato ebraico fosse attaccato di sorpresa. Al di là delle propagande e contropropagande è infatti opinione delle agenzie di intelligence americane e israeliane che i danni inflitti al programma persiano siano importanti ma non decisivi.
Di più: già oggi, disponendo di oltre 400 chili di uranio arricchito al grado bellico, il regime militar-teocratico di Teheran è in grado di allestire in pochi mesi otto-dieci ordigni nucleari, pur di moderata potenza. L’Iran era e resta una potenza nucleare di soglia: ha tutto per costruire la Bomba. Manca solo l’ordine. Ordine che potrebbe scattare in segreto.
Infatti la decisione di interdire all’Agenzia internazionale per l’energia atomica l’accesso alle infrastrutture dell’atomo persiano – dichiarato obiettivo civile, destinato a aumentare la produzione di energia elettrica nazionale – impedisce quel grado di controllo dall’esterno che consentiva fino ad oggi di farsi un’idea dello stato dell’arte nucleare in Iran.
Restano, ovviamente, le intelligence occidentali e soprattutto quella israeliana, che ha mostrato un alto grado di penetrazione nel sistema del Nemico massimo. Ma è anche vero che dopo i colpi clamorosi subìti negli ultimi mesi, tra cui l’eliminazione fissica di alcuni scienziati di punta impegnati nel programma atomico, il regime iraniano ha oggi la possibilità di arrestare o uccidere agenti veri o presunti, costretti allo scoperto.
Ma il paradossale effetto strategico degli attacchi dei due Satana – il grande (l’America) e il piccolo (l’»entità sionista») – ci riguarda tutti. Se l’Iran si dota effettivamente di un proprio nutrito arsenale, tutto il sistema di contro-proliferazione nucleare stabilito per trattato internazionale dal 1968 entra in crisi. E anche se non se ne dota ma ci lascia nell’incertezza di possederlo non cambia molto.
I Paesi che possono dotarsi della Bomba e per diversi motivi vi hanno finora rinunciato sono razionalmente abilitati a passare il Rubicone. Per almeno una decina di questi la possibilità è concreta: vale in primo luogo per il Giappone, la Germania, la Corea del Sud oggi, e per l’Arabia Saudita e la Turchia domani.
Il ragionamento: se una potenza atomica di soglia come l’Iran può essere minacciata di morte da uno Stato nucleare, non conviene più restare in sospeso fra capacità, intenzione e decisione di costruirsi un arsenale atomico. L’unica, quindi, è farsi la Bomba. Non più come mero deterrente, ma come arma effettiva. Spendibile. Come era successo a Hiroshima e a Nagasaki nel 1945.
Nel contesto della «terza guerra mondiale a pezzi» (copyright papa Francesco) il superamento della latenza nucleare per la produzione di un proprio arsenale, dotato quindi di missili sufficientemente potenti e di notevole gittata, aumenta di molto il rischio che il francescano riferimento ai «pezzi» sia cancellato dai fatti. Si tratta indubitabilmente di uno scenario apocalittico.
Inutile a questo punto mettere la testa nella sabbia. La questione esistenziale qui evocata condizionerà la geopolitica mondiale negli anni che verranno. Forse per decenni. In particolare, potrebbe indurre alcune delle attuali potenze atomiche, gli Stati Uniti, la Russia e la Cina in testa, ad accarezzare l’idea dell’uso preventivo, non meramente deterrente, della Bomba.
In fondo, tutti i conflitti in corso sono pensati e giustificati da chi li scatena con la necessità di imminenti aggressioni altrui. Vale per Stati Uniti e Israele contro l’Iran, oggi, ma valeva anche per la Russia contro l’Ucraina, ieri, e forse pure per la Cina contro Taiwan (un’altra potenza atomica latente) dopodomani.
Sarebbe divertente, se non fosse drammatico, lo pseudo-dibattito europeo sul riarmo. Guidato non a caso dalla Francia e dalla Gran Bretagna, le due nazioni nucleari nel contesto euroatlantico. Seguono Germania e Polonia, dove della possibilità/necessità della Bomba si discute ormai pubblicamente.
Come potrebbe essere diversamente, visto che il ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, prevede un attacco russo all’Europa atlantica già nel 2029, considerato probabile anche a Varsavia e in tutto il fronte antirusso dell’Europa orientale e settentrionale.
Poiché Vladimir Putin dispone almeno sulla carta del più nutrito arsenale del pianeta, senza intervento americano, ormai dubitabile, lo scontro sarebbe chiuso in partenza. Né qualcuno può pensare seriamente di surrogare il crescente disimpegno americano dal Vecchio Continente con l’ombrello francese o britannico (dipendente dagli Stati Uniti). Di qui la necessità di provvedere in proprio.
Non sappiamo se sia più ozioso o spettrale il dibattito su un ombrello atomico europeo, con il bottone della Bomba affidato a turno a qualcuno dei trenta soci euroatlantici o dei ventisette comunitari.
Scenari estremi, purtroppo non più irrealistici. Quando Stati Uniti, Gran Bretagna e Urss promossero il Trattato di non proliferazione per impedire che altri li seguissero sulla strada dell’arma finale, certo non immaginavano che oggi nove potenze (dieci con l’Iran) ne avrebbero potuto disporre. Siamo ancora in tempo per arrestare questa deriva. Basta non fingere di essere al sicuro.