Criptovalute alla conquista del mondo

by Claudia

Intervista a Lars Schlichting: il funzionamento del Bitcoin e di altre «monete» digitali, le politiche di alcuni Stati in materia

Nonostante abbiano un andamento ondivago e soffrano molto gli scossoni dati dalla geopolitica (guerre, colpi di testa di Trump ecc.), le criptovalute vanno sempre più forte. Bitcoin, Ethereum, Tether, Ripple, Binance, Solana… per citare le più diffuse (digitate coinmarketcap su un motore di ricerca per un elenco più esaustivo, col valore di mercato). Ne avrete sentito parlare di sicuro ma magari non le capite fino in fondo. Allora questo articolo fa per voi. Partiamo dalla definizione. Le criptovalute sono «monete» digitali che non sono emesse/garantite da una banca centrale, non sono necessariamente legate a una valuta legalmente istituita, ma sono accettate da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e possono essere conservate o trasferite elettronicamente.

«La base di Bitcoin e delle criptovalute è la tecnologia blockchain», spiega Lars Schlichting, avvocato ticinese, esperto del tema, appassionato di Bitcoin. «Immaginiamola come una sorta di registro contabile che indica quanta valuta digitale possiede ognuno. La particolarità è che si tratta di un registro decentralizzato. Non c’è insomma un singolo ente a gestirlo, come una banca centrale, bensì più persone che mettono in sicurezza il registro, ad esempio utilizzando energia necessaria a risolvere complessi problemi crittografici tramite potenza computazionale». Tutte le transazioni – che non necessitano di intermediari – vengono memorizzate come informazioni criptate in blocchi di dati e non possono più essere modificate. La blockchain garantisce non solo che esista una sola copia di un asset digitale, ma che lo stesso asset non possa essere speso due volte.

Questi blocchi infatti non si trovano su un server centrale, ma su quelli che si chiamano nodi e che tutti i partecipanti possono creare senza dover chiedere un’autorizzazione, specifica il nostro interlocutore. Chiunque voglia manipolare un registro dovrà quindi manipolare tutti i nodi simultaneamente, un’azione praticamente impossibile, tant’è che la blockchain di Bitcoin non è mai stata alterata, al contrario dei wallet che contengono le criptovalute che possono essere soggetti a vari tipi di attacchi. «Tutti inoltre possono aderire a questa rete decentralizzata mettendo a disposizione potenza di calcolo (una volta bastava il proprio computer, oggi ci sono apparecchi dedicati a questa attività). In cambio ricevono unità di valuta digitali, che accrescono la quantità della rispettiva criptovaluta. Questo processo è noto anche come mining».

«Il Bitcoin è diverso dalle altre criptovalute», afferma Schlichting. «È l’unica ad essere totalmente decentralizzata; le altre criptovalute derivano di regola da un progetto creato e gestito da persone o società, senza il sostegno delle quali il progetto fa fatica a crescere. Mentre chi ha ideato Bitcoin – un individuo o un gruppo di individui noto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto – lo ha lanciato e ha cominciato ad usarlo come gli altri, senza disporre di vantaggio personale, se non quello di essere stato il primo ad aver “minato” (da mining) Bitcoin quando non valevano quasi niente (1 Bitcoin giovedì scorso corrispondeva a oltre 87 mila franchi). Si dice che Nakamoto abbia “minato” circa un milione di Bitcoin. La cosa straordinaria: non li ha mai toccati. La blockchain, che è pubblica, ci permette di verificare che i primi wallet che si suppone essere i suoi non hanno subito prelievi». Ma facciamo un passo indietro. Bitcoin nasce nel 2008 quando Satoshi Nakamoto pubblica un documento intitolato Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System su di una mailing list dedicata alla crittografia. Si trattava di un whitepaper di nove pagine in cui spiega la sua idea: la blockchain, ovvero il metodo per cui nella prima volta nella storia si riesce a creare un asset digitale non duplicabile.

«Il contesto – ricorda Schlichting – era quello della crisi finanziaria mondiale e Nakamoto voleva raggiungere un duplice obiettivo. Da un lato creare una valuta digitale progettata specificamente per il commercio su internet e, dall’altro, una riserva di valore. Tutto questo sganciandosi dalle banche e dalla politica che spesso e volentieri fanno i loro interessi e non il bene della società. Satoshi Nakamoto temeva che tutto il denaro stampato dalle Nazioni per superare la crisi del 2008 avrebbe aumentato l’inflazione, facendo perdere valore alla moneta statale. Non è un caso che nel primo blocco prodotto dalla blockchain di Bitcoin si trovi un messaggio: era il titolo del quotidiano “Times” del 3 gennaio 2009 che annunciava l’intervento dello Scacchiere britannico per salvare l’ennesima banca: “The Times 03/Jan/2009 Chancellor on brink of second bailout for banks”». Nakamoto ha creato una valuta digitale deflazionistica, limitando il numero massimo di Bitcoin emettibili a 21 milioni, introducendo un meccanismo che dimezza il numero di Bitcoin emessi ogni quattro anni circa (oggi ne circolano 19,87 milioni). Il numero non è stato scelto a caso – dice l’intervistato – ma è dovuto al fatto che la prima ricompensa per l’attività di mining (i nuovi Bitcoin) ammontava a 50 Bitcoin. Ogni 210’000 blocchi questa ricompensa si dimezza, dunque 25 Bitcoin nel 2012, 12,5 nel 2016 e così via, arrivando alla fine alla somma di 21 milioni (in realtà 20’999’999,9975528).

Ad oggi Bitcoin viene usato più come riserva di valore che come sistema effettivo di pagamento senza intermediari. Il motivo? «Bitcoin non è ancora stabile, è troppo volatile perché c’è ancora poca gente che lo usa», sostiene l’esperto. «Ma la volatilità si sta riducendo. Più persone lo acquistano più la volatilità si abbassa. Probabilmente tra 20-30 anni Bitcoin fluttuerà come le monete tradizionali e servirà anche come mezzo di pagamento». Allarghiamo lo sguardo e consideriamo la politica di alcuni Governi rispetto alle criptovalute, a partire dall’America. Un tempo scettico, Donald Trump ha abbracciato le valute digitali durante la sua campagna elettorale (acquisendo decisi sostenitori in quel mondo), tra le altre cose creandone una ($TRUMP) e firmando un ordine esecutivo affinché il Governo istituisca una «riserva strategica di Bitcoin». «Negli Stati Uniti il debito pubblico si avvicina ai 37 trilioni di dollari, una cifra esorbitante», osserva Schlichting. «Ci sono poche soluzioni per ripagare questo debito: aumentare le tasse, e nessuno lo vuole fare, ridurre i costi oppure lasciare che l’inflazione eroda il debito. Quest’ultima soluzione implica però che tutti soffrano, perché si perde il potere di acquisto. Questa tendenza è tuttavia già in atto. Con il dollaro che sta perdendo valore, per la Federal Reserve diventa più difficile piazzare i propri buoni (incrementando il debito), con il rischio di non riuscire più a finanziare le proprie spese e far crollare ancora di più il dollaro. Così gli Usa hanno preso iniziative per facilitare l’emissione di stablecoin (criptovalute ancorate a un certo valore patrimoniale) laddove quelle ancorate al dollaro – come Tether – sono in maggioranza. L’idea è semplice, chi compra Tether paga in dollari, Tether deve poi far fruttare tali dollari in modo sicuro e dunque compra i buoni del Tesoro americano, finanziando in questo modo il debito statunitense».

Secondo la Banca centrale europea (Bce), le stablecoin ancorate al dollaro detengono già circa 150 miliardi di titoli di Stato Usa, ovvero quanto Arabia Saudita, Corea, Messico e Germania. Più in generale, la tendenza è quella di vedere nelle criptovalute, Bitcoin in testa, un’opportunità: acquisteranno valore e si stabilizzeranno nel tempo. Le stablecoin – aggiunge l’intervistato – stanno avendo enorme successo anche in diversi Paesi africani, dell’America Latina e del sud-est asiatico, dove è difficile operare tramite un conto bancario, vista la loro capacità di funzionare anche come mezzo di pagamento, peraltro più rapido degli altri visto che non ha intermediari. Ma gli altri Stati non stanno a guardare. In Cina il digital renminbi (o yuan digitale), testato internamente dal 2020, è ora parte integrante dei flussi commerciali con Paesi Asean (Associazione degli Stati del sud-est asiatico) e diverse Nazioni mediorientali. Una buona fetta del commercio mondiale potrà così svolgersi senza passare da banche e dal dollaro statunitense. «Un passo storico e una sfida diretta alla supremazia finanziaria americana. Senza contare che Pechino usa la sua valuta digitale, emessa dallo Stato, per controllare la popolazione: non permettendo in particolare a nessuno di compiere azioni contrarie alla linea del partito. Vi è pure l’idea di creare valute a scadenza per dare una spinta ai consumi interni…».

Dal canto loro gli Usa rinunciano per ora al cripto dollaro statale mentre l’idea dell’euro digitale circola da tempo e i vertici Ue vorrebbero velocizzare i processi, anche per contrastare i traffici illegali, ma devono trovare il modo di rispettare la privacy dei cittadini. Mosca era contraria alle criptovalute perché erano usate dai dissidenti, leggi Navalny, per finanziare le loro campagne. Ma, dopo l’invasione dell’Ucraina, ha compiuto passi significativi per promuovere e regolamentare il settore delle valute digitali anche per aggirare le sanzioni occidentali. Unico limite: i «minatori» di criptovalute devono registrarsi presso le autorità fiscali. Resta da spendere qualche parola su valute digitali, criminalità e sostenibilità. Lo faremo nella prossima puntata.