A colloquio con Noah Stolz attorno a Confirmer l’invisibile, prima personale ticinese dell’artista svizzera, Prix Meret Oppenheim 2024
Varcando l’ingresso della Fondazione Epper al secondo piano di Via Carrà dei Nasi 1, prima di parlarmi della mostra in corso Noah Stolz mi presenta il padrone di casa: «Lui è Ignaz», mi dice indicandomi un volto con espressione greve in terracotta accanto alla porta. «E questo invece è Jung», continua poi, raccontandomi del rapporto fra il grande espressionista svizzero e il fondatore della psicologia analitica (termine che segna un passo di distanza dalla psicoanalisi freudiana).
Un rapporto forse ancor più intimo con quest’ultimo lo aveva però Mischa Epper Quarles Van Ufford (Blomendaal, 1901-Basilea, 1978), moglie di Ignaz Epper e a sua volta artista, ma a oggi poco conosciuta rispetto al marito.
Noah Stolz, mi sembra d’intuire che l’esposizione Confirmer l’invisibile inauguri una nuova fase nella storia della Fondazione. Di che si tratta?
Questa iniziativa dà seguito a un processo che ha preso corpo nel corso degli ultimi anni, quando mi occupavo di archiviare e di valorizzare l’opera di Marion Baruch e mentre preparavo, con l’artista italiano Riccardo Arena, una mostra ispirata all’archivio iconografico dei simboli ideato da Jung e dalla fondatrice di Eranos, Olga Fröbe.
Pochi mesi fa la Fondazione Epper mi ha dato mandato di avviare un processo di «rinnovamento» che comprende, oltre all’allestimento di un archivio digitale delle opere della fondatrice Mischa Epper, l’organizzazione di un programma di eventi tesi a rispolverare i valori della Fondazione e, se possibile, a individuarne di nuovi. Ho immediatamente ravvisato nella figura e nell’opera di Mischa il vettore ideale per muovermi in questo senso.
Nel corso dei prossimi due, tre anni, oltre a indicizzare l’opera e la notevole mole di documenti appartenuti all’artista olandese, mi occuperò di allestire un programma di appuntamenti e collaborazioni che sfocerà in una grande mostra retrospettiva itinerante e nell’edizione di una monografi.
Credo che acquisire una maggiore consapevolezza riguardo alle potenzialità di questi materiali contribuirà a fornire alla Fondazione un importante strumento che le permetterà di orientarsi verso nuovi obbiettivi. I temi che Mischa ha probabilmente sollecitato in Jung e in tutta la cerchia che attorno a lui si riuniva sono universali, legati agli archetipi femminili, con al centro quello della Grande Madre.
Ecco perché la mostra Confirmer l’invisible di Valérie Favre ha per me un’importanza cruciale: essa mi permette di introdurre questi argomenti in chiave contemporanea.
Veniamo all’artista in questione. Chi è Valérie Favre?
Favre è un’artista straordinaria, molto nota in Francia e soprattutto in Germania, dove ha lungamente vissuto e ora risiede. È nata a Evilard nel 1959, in una famiglia dell’industria orologiaia.
Ci siamo conosciuti per caso, alla Domus Poetica di Bellinzona, durante una tavola rotonda nella quale ero moderatore. Mi ha subito interessato il suo lato outsider; per vocazione o destino mi sono sempre occupato di outsider, forse perché ciò mi permette di esplorare grandi temi da punti di vista atipici, più vivi.
Abbiamo subito legato proprio attraverso argomenti che riportavano alla figura di Mischa Epper. Ma naturalmente il percorso di Favre, che oggi è soprattutto conosciuta come pittrice, non è riducibile a questo. Il suo cammino potrebbe definirsi pirotecnico e comprende irruzioni in ambiti quali il teatro, il cinema e la letteratura.
Tuttavia, nel suo modo di procedere ricorrono numerosissimi elementi psicoanalitici e archetipici, spesso ispirati all’universo onirico ed elaborati in processi immaginativi.
La mostra dedicata a Valérie Favre è pensata attraverso tre appuntamenti espositivi, nei quali, tra l’altro, ogni allestimento è strutturato su tre sale. Quali sono le ragioni di questa scelta e cosa mettono in luce i diversi «capitoli»?
Contrariamente alle abituali mostre di Favre, Confirmer l’invisible è concepita a partire dall’opera grafica, dai suoi diari-quaderni intimi e dai bozzetti che mi sono stati messi a disposizione. Il materiale, che comprende l’uso di più tecniche, era molto e copriva un arco di trent’anni.
Rispetto alla pittura, il disegno ha una gestione meno semplice, perché spesso un’illustrazione segna la tappa di un processo mentale in corso e non un risultato definito. Ciò rende più ostica la fruizione da parte del pubblico che, in questo caso, deve essere introdotto in un ambito in cui sono appunto in gioco elementi psicoanalitici. Mi sono quindi affidato a una metodologia didattico-intuitiva incentrata sulle associazioni visive, che permette a chiunque di individuare le somiglianze e di muoversi nella mostra raccogliendo indizi, collegando tra loro le immagini simboliche e intuendone la complessità.
Ho notato che Favre, pur sviluppando il suo lavoro per grandi temi paralleli, tende a ripetere e a far evolvere determinate figure simboliche. Ho quindi individuato le principali dinamiche messe in campo per restituirle attraverso i tre movimenti della mostra.
L’articolazione tripartita ha permesso da un lato la distribuzione di un vasto insieme di opere su più tempo (e quindi su più spazio), dall’altro una maggiore esplicitazione della grande libertà che caratterizza l’agire di Favre, così come una più chiara messa a fuoco dei moti sotterranei che caratterizzano il suo protocollo di creazione.
Il primo capitolo (05/04-24.05.25) è incentrato sulla visualizzazione dell’universo simbolico dell’artista, partendo dal simbolo universale dell’albero della vita per poi passare a una fitta rete di relazioni con altre figure che animano le opere di Favre. Nella terza sala affronto quindi la questione della coppia e del doppio, come elementi di connessione alla dimensione onirica e a quella della sessualità.
Il secondo movimento (8.6.25-17.7.25) sarà dedicato alle due principali forze dinamiche che caratterizzano ogni opera di Favre, ovvero la necessità di organizzare mentalmente le forme e i simboli e la pura trascrizione del movimento psichico come forza disgregante che porta all’astrazione e alla dispersione.
Il terzo movimento (31.8.25-18.1.26) rappresenterà la congiunzione delle precedenti parti e affronterà la questione della narrazione simbolica.
Un’opera fortemente onirica, quindi, quella di Valérie Favre. Quali forme prende in questo immaginario la contemporaneità a cui accennavi?
Decisamente quella della frammentazione, che tanto caratterizza l’opera di Favre assieme all’elemento della fluidità: qualunque cosa stia rappresentando, in ogni sua opera c’è sempre qualcosa che sfugge: un animale sorto dalle forme di un altro animale, uno spirito che scantona, un dissolversi di un simbolo in un altro simbolo, una perenne provvisorietà diffusa. E poi quella del violento bombardamento di immagini.
Mi viene in mente una frase scritta in calce a un disegno in cui sono rappresentati gli ineludibili legami della coppia uomo-donna: «Sempre, sempre, sempre, quasi sempre, sempre». Se dovessi definire la sua opera con una frase, ne userei una dello scrittore John Green citata da Amanda Palmer: «L’arte è dove ciò a cui sopravviviamo sopravvive».