Il compito di Leone XIV: riunire la Chiesa cattolica

by Claudia

Un Papa americano dovrebbe anche facilitare un nuovo slancio di «doni» Usa verso le sofferenti casseforti vaticane

Leone XIV (nella foto) è stato chiamato a governare la Chiesa in crisi esistenziale. Ad amministrare un colosso da un miliardo e 400 milioni di anime battezzate, variamente diffuso nei cinque Continenti. Metà dei fedeli sono nelle Americhe, con il Brasile in testa (182 milioni), assai più che in Europa, mentre l’Africa cresce grazie anche alla spinta demografica e l’Asia, dove si concentra il grosso dell’umanità, non supera il 3% di cattolici. Intanto, la crisi di vocazioni, ormai generalizzata, colpisce il clero in tutte le sue declinazioni e rende urgente un maggior coinvolgimento dei laici (uomini e donne) nella vita della Chiesa, ciò che apre polemiche e dispute nel corpo ecclesiastico. In questo contesto ecco l’emergenza degli scismi liquidi. Così in Vaticano sono chiamate le tendenze autoreferenziali in diverse Chiese locali. Alcune conferenze episcopali si muovono – o stanno ferme – lungo binari propri, spesso in polemica con la Curia romana e con lo stesso Papa. Il compito del primo pontefice americano è dunque impedire che questi scismi liquidi si consolidino configurando un arcipelago di cattolicesimi autonomi, magari eretti in Chiese autocefale sul modello ortodosso.

Gli anni di Francesco (2013-25), specie gli ultimi, hanno reso evidenti questi movimenti sismici. Mai era accaduto che il pontefice venisse pubblicamente criticato, anzi insultato, dall’alto clero come con Bergoglio. In specie, ma non solo, dai fautori di una Chiesa più attenta alle tradizioni, alle antiche liturgie e alla dottrina, contro la smania di cogliere i «segni dei tempi», nel senso modernizzatore inteso dal concilio Vaticano II. Quasi un ritorno allo spirito reazionario del Vaticano I e del Sillabo (1864) di Pio IX. A questo si è aggiunta la personalità del pontefice argentino. Profondamente latinoamericano nel culto del popolo – di fatto simile ai teologi della liberazione traduttori in linea cristiana del marxismo – e nella tendenza politica peronista. In geopolitica assimilabile alle aspirazioni bolivariste pro «Patria Grande» – le altre Americhe aggregate contro i gringos nordamericani. Un bel salto rispetto all’occidentalista Joseph Ratzinger, suo predecessore, fine teologo e deciso custode della tradizione. Per tacere di Giovanni Paolo II.

Bergoglio era consapevole di rappresentare uno scandalo per molti principi della Chiesa ed esponenti del basso e medio clero. Lui stesso ammetteva amaramente, in privato, che sarebbe potuto passare alla storia come un Papa che avrebbe diviso la Chiesa. Eppure era convinto della necessità di scuotere il colosso prima che si addormentasse nelle braccia del Signore, quasi senza accorgersene. Il suo mantra della «Chiesa in uscita» che va incontro alla gente financo nelle estreme periferie umane e geografiche derivava da questa convinzione. E quando invitava il suo popolo a «far casino» («hagan lío!») l’intendeva sul serio. Insomma, l’importante e il possibile era aprire brecce, avviare processi che nel tempo avrebbero portato alla rinascita della Chiesa «dei poveri per i poveri». I cardinali riuniti in conclave per eleggere il successore di Francesco rappresentavano le tre anime del clero. La missionaria, più o meno orientata a seguire le orme di Francesco per portare a compimento alcuni dei processi iniziati dal papa argentino; la tradizionalista, avversa all’eccesso di avventure e decisa a proteggere la fede da eresie di vario genere; infine chi veleggia fra le due correnti, accostando a dritta o a manca secondo occasione o mero opportunismo.

L’urgenza di individuare un Papa all’altezza della sfida esistenziale è stata aggravata dalla crisi finanziaria. Le casse vaticane sono semivuote. Più che di teologia, i cardinali si sono occupati nel preconclave di affrontare questo dramma. Un fattore importante nella scelta di Prevost è stata la sua origine statunitense, anche se ibridata dalla lunga esperienza in Perù oltre che a Roma. Oggi il cattolicesimo americano, assai diviso al suo interno con prevalenza dei conservatori, è il maggior contribuente alle finanze vaticane. Enti come la Papal Foundation, ad esempio, hanno contribuito a creare il consenso per il Papa americano, che avrebbe facilitato un nuovo slancio di «doni» verso le sofferenti casseforti vaticane. Il cardinale Timothy Dolan ha quindi lavorato a far convergere i voti dei confratelli statunitensi e non solo a favore di Prevost, considerato un «centrista», in sintonia con alcuni aspetti dell’approccio francescano ma di certificata, agostiniana cura dell’unità nella comunità.

Insomma, il mandato è chiaro: Leone XIV deve riunire la Chiesa, o almeno evitare che si spacchi. Lui stesso su questo sta insistendo nei suoi primi interventi pubblici. Insieme allo spirito unitario, Prevost deve rianimare il governo della Chiesa. La curia è stata trascurata, aggirata, spesso umiliata da Francesco. Sarà suo compito riorganizzare i dipartimenti, riannodare i nodi spezzati fra centro e periferie, ristabilire l’autorità papale in un clima sinodale. Sullo sfondo geopolitico, l’ascendenza americana di Leone XIV sta mobilitando le correnti neotradizionaliste del cattolicesimo di Oltre Atlantico, che partecipano alla rivoluzione trumpiana in pieno corso. Nella stessa amministrazione Trump rappresentate da cattolici convertiti di grande peso e visibilità, quali il vicepresidente Vance. Riuscirà Prevost a tenere la barra dritta, senza farsi tirare la talare verso i più diversi approdi?