La crisi a Gaza mette a nudo l’emergenza umanitaria globale, aggravata dai tagli ai fondi (vedi Stati Uniti). L’inazione politica è sempre più difficile da giustificare, servono intenzioni forti e approcci innovativi
«Oggi è l’inferno assoluto». Con queste parole, il direttore del Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR), Pierre Krähenbühl, ha descritto la drammatica situazione nella Striscia di Gaza. Intervistato dalla Radiotelevisione svizzera di lingua francese (RTS), ha rivolto un appello urgente alle autorità politiche affinché «dimostrino coraggio, alzino il telefono e usino la propria influenza» per spingere le parti in conflitto a raggiungere un cessate-il-fuoco. «Se siamo disposti a tollerare ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza», ha aggiunto Krähenbühl, «allora è la nostra umanità collettiva a essere in gioco».
In un territorio poco più grande del Canton Ginevra o della Valposchiavo, milioni di civili si trovano intrappolati senza cibo né assistenza medica, privati di qualsiasi base per un’esistenza degna di questo nome. Secondo l’Ufficio delle Nazioni unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), oltre due milioni di persone rischiano la fame. Anche l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) segnala che l’esercito israeliano ha distrutto o danneggiato il 94% delle strutture ospedaliere presenti nella Striscia. Dopo quasi tre mesi di blocco totale, il Governo israeliano ha finalmente consentito l’ingresso di aiuti umanitari. La gestione è stata affidata alla Gaza Humanitarian Foundation. Secondo Manuel Bessler, ex delegato del Consiglio federale per l’aiuto umanitario, con questa fondazione Israele sta strumentalizzando gli aiuti, che per principio devono essere neutrali, apartitici e indipendenti.
Oltre dieci anni fa, in un’intervista concessa al settimanale «Azione», Cornelio Sommaruga, alla guida per dodici anni del CICR, ricordava come «in un mondo ridotto a un bazar globale, l’opinione pubblica sia l’unica vera superpotenza», sottolineando l’urgenza di una «globalizzazione della responsabilità». Una responsabilità che chiama in causa Governi, forze politiche, mondo economico, media, università e scuole, religioni e confessioni, ma anche ogni singolo individuo. La voce di Sommaruga, spentasi l’anno scorso, sarebbe oggi più che mai necessaria per rilanciare quell’appello alla responsabilità collettiva. Intanto si moltiplicano gli inviti al Consiglio federale, in particolare a Ignazio Cassis, affinché si impegni per porre fine alle uccisioni a Gaza. Tra le firmatarie di una lettera aperta inviata mercoledì al Governo figura anche Micheline Calmy-Rey. L’ex ministra degli Esteri ha richiamato il principio della responsabilità morale e politica della Svizzera, in quanto Stato depositario delle Convenzioni di Ginevra: «Il Consiglio federale non può rimanere in silenzio, altrimenti si rende corresponsabile. Deve agire e difendere i valori umanitari».
Un invito che andrebbe esteso anche alle tante altre crisi umanitarie nel mondo. Perché ce ne sono molte, altrettanto gravi, ma spesso dimenticate. Emergenze multiple e interminabili su cui i riflettori dei media, e talvolta degli stessi attori umanitari, si sono spenti da tempo. Quando è stata l’ultima volta che abbiamo sentito parlare della Repubblica Democratica del Congo, un Paese dilaniato da un conflitto tra gruppi armati? E della popolazione somala, provata prima da una lunga siccità e poi travolta da alluvioni devastanti? O ancora del Sahel centrale, teatro di una delle crisi umanitarie più estese del pianeta? E anche quando queste tragedie riescono a conquistare l’attenzione dei media, raramente riescono a scuotere davvero le coscienze. Se non si consumano proprio davanti alla porta di casa, come nel caso dell’Ucraina, questi drammi sembrano ormai normali, quasi fossero parte della routine quotidiana di un’opinione pubblica sempre più assuefatta al dolore altrui.
Una sofferenza che, purtroppo, non accenna a diminuire. E questo nonostante la comunità internazionale abbia assunto l’impegno di «non lasciare indietro nessuno». Con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata nel 2015, tutti gli Stati membri delle Nazioni unite hanno promesso, ad esempio, di sradicare la fame e la povertà, promuovere società pacifiche, giuste e inclusive, e proteggere le risorse naturali e il clima del pianeta per le generazioni future. Basta guardare al numero crescente di conflitti armati e alle catastrofi naturali sempre più devastanti per intuire che quell’ambizioso traguardo appare ormai sempre più una chimera.
Secondo le stime delle Nazioni unite, nel 2025 ben 305 milioni di persone necessitano di assistenza e protezione. È la cifra più alta mai registrata nella storia. Inoltre, negli ultimi vent’anni, la domanda globale di aiuti umanitari è aumentata di dieci volte: da 5 miliardi di dollari nel 2005 a quasi 50 miliardi nel 2025. Di fronte a questi bisogni giganteschi molti Paesi hanno tuttavia scelto di tagliare i fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo e all’aiuto umanitario, aumentando nel contempo le spese militari, tra cui anche la Svizzera. Questa tendenza ha ulteriormente ampliato il divario tra risorse disponibili e necessità. Solo lo scorso anno, le Nazioni unite hanno ottenuto meno della metà dei fondi richiesti per coprire i bisogni umanitari globali.
La decisione del presidente americano Donald Trump di ridurre drasticamente i finanziamenti destinati a USAID e a diverse agenzie delle Nazioni unite ha aggravato un’evoluzione che dura da anni. Questo disimpegno americano, unito alla cronica mancanza di mezzi finanziari, obbliga ora le ong e le agenzie internazionali a prendere decisioni difficili: stabilire nuove priorità, lasciando intere comunità al loro destino. Tuttavia questa situazione potrebbe rappresentare anche un’opportunità per rinnovare l’azione umanitaria, rendendola più efficace e sostenibile. Da anni si parla di localizzazione, cioè del trasferimento di risorse e responsabilità alle organizzazioni locali nei Paesi colpiti da una crisi, al fine di rafforzarne la resilienza e la capacità di risposta autonoma. È uno dei principi chiave del Gran Bargain, un accordo tra donatori e organizzazioni umanitarie – a cui ha aderito anche la Svizzera – che prevede, concretamente, di destinare il 25% dei fondi direttamente agli attori locali. A quasi dieci anni di distanza, anche questa promessa è rimasta in gran parte disattesa. Per il Nord globale si tratta di abbandonare modelli di pensiero e di potere legati al passato. In altre parole, è tempo di decolonizzare l’aiuto allo sviluppo.