Onlife

by Claudia

Onlife non è una Parola dei figli, ma una parola che dobbiamo conoscere per comprendere il loro mondo. Nell’ultima rubrica de Il caffè dei genitori, abbiamo riflettuto sulla miniserie Adolescence, che mette in luce quanto poco conosciamo davvero della Gen Z e del loro linguaggio. Se vogliamo capire cosa fanno e come stanno i nostri figli, dobbiamo imparare a porre le domande giuste. Per farlo, dobbiamo prima comprendere la realtà in cui vivono: la realtà onlife. Il termine descrive la fusione tra vita online e offline, in cui digitale e fisico si intrecciano senza distinzioni. Cade la dicotomia.

È un neologismo, più attuale che mai, coniato nel 2013 dal filosofo Luciano Floridi, nato a Roma nel 1964, laureato con lode a La Sapienza, già direttore del Laboratorio di etica digitale a Oxford, nel 2023 fondatore del Centro di etica digitale della Yale University che oggi dirige. I suoi lavori sono stati tradotti in numerose lingue, tra cui albanese, arabo, cinese, francese, tedesco, giapponese e spagnolo. Per spiegare il tempo in cui viviamo, Floridi scrive: «È come la Società delle mangrovie (piante tipiche delle latitudini tropicali: grandi foreste di mangrovie si trovano in Brasile, Indonesia, India, Filippine, Madagascar ndr). Vivono in acqua salmastra, dove quella dei fiumi e quella del mare si incontrano. Un ambiente incomprensibile se lo si guarda con l’ottica dell’acqua dolce o dell’acqua salata. Onlife è questo: la nuova esistenza nella quale la barriera fra reale e virtuale è caduta, non c’è più differenza fra “online” e “offline”, ma c’è appunto una “onlife”: l’esistenza, che è ibrida come l’habitat delle mangrovie».

I nostri figli crescono in questo ambiente, dove l’acqua dolce e quella salata si mescolano: il digitale e l’analogico non sono separati, ma si integrano in un’unica esperienza. E la verità è che anche noi viviamo in questa Società delle mangrovie. Quando seguiamo le indicazioni del navigatore GPS mentre ascoltiamo musica in streaming, quando facciamo smart working, quando la nostra quotidianità è costantemente mediata dalla tecnologia, siamo tutti onlife. La differenza con gli adolescenti è che loro ci sono nati e non conoscono un altro modo di vivere. Noi lo affrontiamo da sommozzatori, loro come pesci. Se la distinzione tra essere connessi e non essere connessi non esiste più, non ha più senso chiedersi se i nostri figli sono online o offline. È come domandare se l’acqua delle mangrovie è dolce o salata: vuol dire che non abbiamo capito nulla.

Chiariti i concetti teorici, telefono al mio amico Simone Arcagni, docente dello Iulm e uno dei più quotati divulgatori scientifici italiani sulle nuove tecnologie, autore con Andrea Colamedici de L’algoritmo di Babele (Solferino, novembre 2024). Gli pongo la domanda chiave: appurato che i nostri figli vivono onlife, quali sono le conseguenze? «Joseph C. R. Licklider, psicologo e matematico statunitense, è stato il primo, negli anni Sessanta, a prevedere lo scambio di informazioni tra computer, diventando di fatto il precursore di Internet – mi spiega –. Ecco, oggi i nostri figli vivono loro stessi uno scambio continuo di informazioni con la tecnologia. In un rapporto di fatto alla pari. È uno stato di simbiosi. L’errore più grande che possiamo fare da genitori è vederli e farli sentire come lo scarafaggio de La metamorfosi di Kafka». Nella novella di Kafka, il giovane Gregor, commesso viaggiatore che mantiene la famiglia con il suo lavoro, si sveglia trasformato in un insetto. Cerca di adattarsi, ma i genitori non lo accettano e lo fanno sentire così abbandonato a se stesso da spingerlo a lasciarsi morire di fame. Per capire Le parole dei figli, serve allora un cambio di prospettiva. Non guadiamoli come scarafaggi da social! Invece di rimproverarli perché passano troppo tempo a scrollare sul cellulare, è più utile domandare cosa gli piace guardare. Invece di condannare TikTok, è più proficuo chiedere da dove provengano certe loro convinzioni. Invece di obbligarli a smettere di chattare, è bello farsi raccontare chi sono i loro amici e dove li hanno conosciuti (e la risposta può essere: «Su Instagram! »). Senz’altro più facile da dire che da fare! Ci possiamo, però, almeno provare.