Vietnam, cinquant’anni dopo

by Claudia

Il 30 aprile 1975 terminò uno dei più sanguinosi conflitti del Novecento. Le nostre impressioni dall’ex Saigon, da Hanoi e Sa Pa

C’è una foto così bella, al Museo della guerra di Ho Chi Minh (ex Saigon), che mi sono scordata di fotografare: una bambina di 5 anni circa sorride radiosa accanto a una cesta di pesci o gamberi. È su una barca, scalza, sono gli anni Novanta, la luce è quella del mattino, la sua aria scanzonata e fiduciosa dovrebbe essere quella di ogni creatura venuta al mondo. Lo penso mentre cerco di rimandare indietro le lacrime accumulate durante le ore passate a guardare foto, oggetti e testimonianze dell’orrore nero. Basterebbe aprire un giornale per leggerne altri più attuali, certo, ma c’è qualcosa di assoluto, di paradigmatico nel modo in cui la follia è emersa in Vietnam (il conflitto – che prese avvio nel 1955 e terminò nel 1975 con la vittoria del nord e la riunificazione del Paese – è ricordato anche per l’uso di armi chimiche devastanti e per essere stato la prima e più cocente sconfitta degli Usa contro il blocco comunista nel corso della Guerra fredda). Una follia così documentata che i curatori hanno pensato di fare una stanza gioco per i piccoli turisti in modo da sottrarli alla vista prematura delle tante immagini insopportabili, spesso di loro coetanei, esposte nei due piani di questa palazzina ariosa.

«Come mai avete deciso di visitare il museo dei residuati bellici?», ci chiedono alcuni studenti con una telecamera per una ricerca universitaria. Rispondiamo professionali: «La storia di questo Paese riguarda tutti», o qualcosa di simile, con alcuni milioni di morti vietnamiti e i 58mila americani caduti mentre si facevano strumento di un delirio così raccontato, così contestato da diventare centrale per la nostra identità. L’inizio della disobbedienza civile, il patrimonio di attivismo che si è portato dietro, la prima guerra fatta di immagini, raccontata in film immortali incentrati sul dolore del carnefice. E la vittima come si racconta? Celebra la memoria e guarda oltre, o almeno così parrebbe.

Il sorriso sconfinato della bimba del peschereccio è la stessa che vedo in loro e per strada in una città in cui l’età media è neanche 30 anni e in cui tutti sfrecciano allegri sui loro motorini: non si guarda, non ci si ferma sulle strisce, sarà la legge della precedenza karmica, un ordine si trova, chissà se funziona sempre. Sembrano tutti allegri, nei giorni in cui abbiamo visitato il Paese: il 30 aprile è la festa nazionale, ovunque ci sono bandierine o magliette rosse con la stella gialla o la falce e il martello. La città è in festa, parate, feste e concerti. Passiamo davanti all’edificio dove è partito l’ultimo elicottero americano il 30 aprile del 1975, quando Saigon è stata liberata dall’esercito comunista del nord, lì finisce il Vietnam come idea occidentale e nasce il Paese, «una vittoria della resilienza, dello spirito e dell’intelligenza vietnamite», come ha detto Tô Lâm, il segretario generale del Partito comunista, in uno dei tanti discorsi in occasione della ricorrenza.

All’uscita da un parco, un gruppo di ragazze camminano abbracciate con gli occhi lucidi e cantano a squarciagola una canzone, come fosse Albachiara di Vasco Rossi. E invece no, «Vietnam Ho Chi Minh!», mentre i fidanzati le fotografano a beneficio dei social. Guai a loro se sbagliano inquadratura. Intanto genitori giovanissimi portano neonati sottobraccio in motorino, magari con il figlio più grande seduto in mezzo, tra la madre e il padre. I più anziani, soprattutto donne, si esibiscono in coreografie sul lungofiume, vestite uguali. La parola «ottimismo» sembra pulsare nell’aria, o forse è solo l’effetto di tutta questa gioventù a cui non siamo più tanto abituati, nella decrepita Europa. Una gioventù pare felice con poco e che guarda al futuro. Ecco: cento milioni di persone, un Pil che veleggia intorno al 7% da vent’anni, con qualche caduta, tipo il 2,9%, e un benessere crescente che smussa di molto la percezione di un dettaglio fondamentale, ossia che non c’è democrazia. Per questo il regime è ben consapevole che non ci si possono permettere errori. «Trump, brrr», mi dice, abbassando gli occhiali da sole Christian Dior, un’elegante imprenditrice con prole anglofona invitandomi a smettere di usare quello scioglilingua di «Ho Chi Minh City» e di chiamare la città semplicemente «Saigon, more elegant». Incerta su cosa sia più rispettoso – il nome usato dopo la vittoria comunista o quello vecchio, come nel romanzo di Marguerite Duras che sto leggendo, Una diga sul Pacifico – la ascolto mentre liquida le minacce sui dazi di Donald Trump come fossero il brusio di una fastidiosa zanzara. Il Governo vietnamita non se lo può permettere, politicamente ancora prima che economicamente: ha già fatto sapere di volere comprare di più dagli Stati Uniti, ha ridotto i suoi dazi su diversi prodotti e punta soprattutto su accordi e partnership, sul tech e i social media, per cercare di blandire il presidente e tornare a offrire un contesto di stabilità per gli investitori, dopo lo choc dato dall’annuncio di dazi del 46% il 2 aprile scorso, poi sospesi per 90 giorni per consentire negoziati. Dal 1995 i rapporti tra i due Paesi si sono normalizzati e dal 2023 sono arrivati al grado più alto possibile, lo stesso che il Vietnam ha con Pechino.

La Cina la si vede di più andando a nord, a Hanoi e dintorni, dove tutto è più caotico e inquinato, e perde un po’ della grazia quieta del sud. La sua presa culturale, storica, culinaria è ovunque, nei grandi complessi residenziali costruiti in mezzo al nulla e in certe copie del Big Ben e della cupola degli Invalides che scorgo in mezzo alle campagne poco lontano dalla Baia di Ha Long. Nel turismo, che si mischia a quello occidentale, «anche se ancora non piace loro fare le camminate in montagna, per ora preferiscono arrivare nei resort in macchina», spiega Ai, giovane guida appartenente alla minoranza Hmong mentre ci fa strada tra le risaie di Sa Pa. Ha 30 anni, quattro figli piccolini, una mente rapida. Intorno a noi i bambini sono tantissimi, giocano per strada scalzi, con i cani randagi, in mezzo al fango. Una povertà che altrove non abbiamo visto, allarmante, nonostante il turismo rampante che ha trasfigurato Sa Pa e che vede gli Hmong protagonisti come guide esperte e presenze folkloristiche con i costumi tradizionali e la vendita di oggetti più o meno artigianali. Da loro partirà tutto, se mai il regime crollerà, dicono in tanti. Ma per ora sembra lontano, penso seduta da Công, caffè tutto verde militare e stelle rosse, 75 location in tutto il mondo, anche in Canada. Uno Starbucks comunista, qualunque cosa voglia dire.