Bergoglio, un papa a ruota libera

by Claudia

Il ricordo di un pontefice che ha saputo umanizzare la figura del successore di Pietro

«Preferisco una Chiesa incidentata a una Chiesa malata». Lo disse fin dalla sua prima intervista, quando ancora quelle sue espressioni così dirette sembravano qualcosa di inimmaginabile sulla bocca di un papa. Lo ha ripetuto col suo stesso corpo la mattina della Pasqua 2025, in quel suo ultimo giro tra la folla di piazza San Pietro, poche ore prima di morire. Parole e immagini in cui, in fondo, c’è tutta la cifra del pontificato di Francesco, il pontefice pescato «dalla fine del mondo», come lui stesso si era definito apparendo il 13 marzo 2013 da quella stessa loggia delle Benedizioni che è stato anche il luogo del suo commiato.

È stato il papa a ruota libera, senza bisogno mediazioni, Jorge Mario Bergoglio divenuto Francesco. Proprio il rapporto diretto con la gente, con quel suo stile plasmato tra i vicoli e le contraddizioni delle Villas Miserias di Buenos Aires, è stata la sua forza in questi dodici anni di carismatica ma anche molto scomoda guida della Chiesa cattolica. E non è solo una questione di suggestione mediatica se proprio tutti in queste ore hanno il loro papa da raccontare.

Francesco è stato il pontefice che più di ogni altro ha «umanizzato» la figura del successore di Pietro, con gesti rispetto ai quali ora sarà difficile per chiunque tornare indietro. Fin dalla scelta – solo apparentemente minore – di non abitare più nelle stanze appartate del Palazzo Apostolico, preferendogli in Vaticano la ben più affollata Casa Santa Marta. Ma anche, ad esempio, l’idea di un papa che prende direttamente in mano il telefono per chiamare qualcuno a cui esprimere la propria vicinanza.

Francesco ha fatto scendere fisicamente il papa dal piedistallo. Ma – ancora di più – ci ha abituato a un capo della Chiesa cattolica che non è più l’oracolo che centellina le parole, ma un uomo che parla a braccio rispondendo senza rete alle domande. Pronto a esporsi anche al rischio di sbagliare e poi chiedere scusa.

Chi cercava un papa sistematico, capace di confermare le proprie sicurezze, con lui è rimasto del tutto spiazzato. «Chi sono io per giudicare?» è una delle sue frasi che rimarranno nella memoria. Eppure anche chi si aspettava «aperture e rivoluzioni» dal papa argentino alla fine è rimasto deluso. Perché era una persona molto più incline ad «innescare processi» che a tirare conclusioni; umanissimo anche in questo, in fondo.

«Misericordia» è stata la parola chiave del suo pontificato. Non come uno slogan, ma come modo di porsi di fronte alla realtà. È stato il papa dei poveri, dei migranti, degli emarginati; la speranza degli ultimi che oggi forse con più sincerità di tanti altri lo piangono. Ha parlato di terra, casa, lavoro con i movimenti popolari. Ha insegnato che «il mondo si vede più chiaramente dalle sue periferie». Ma sbaglia chi ha visto in lui solo attivismo sociale. In Bergoglio tutto cominciava dallo sguardo alla singola persona: fosse un grande della Terra o l’ultimo dei senza fissa dimora che dormono sotto il colonnato del Bernini.

«Quando vado in visita in carcere mi chiedo sempre: perché loro e non io?». Con un filo di voce, tre giorni prima di morire, lo ha ripetuto ancora uscendo dal carcere di Regina Coeli nell’ultimo Giovedì Santo vissuto da sacerdote accanto ai detenuti. Non era retorica, ma la convinzione di un uomo che non si sentiva affatto perfetto, eppure aveva la serenità di riconoscersi amato e perdonato dal Dio in cui profondamente credeva. Chi lo ha rimproverato di parlare troppo poco di Gesù Cristo, molto semplicemente non lo ha ascoltato: la misericordia che predicava in ogni discorso era quella delle parabole del Vangelo.

È stato un papa più missionario di quanto si pensi; e questo nonostante la sua allergia a ogni forma di «proselitismo». A un cattolicesimo rintanato nella sindrome dell’assedio, ha parlato di una «Chiesa in uscita», che non sta in sacrestia ad aspettare che il mondo intero si penta, ma va incontro a ciascuno là dove si trova per parlare del suo Dio. Senza aver paura di «contaminarsi» nell’incontro con gli altri. Per questo lui per primo non si vergognava di andare nei salotti tv o a casa di Emma Bonino.

Un altro degli snodi cruciali del suo pontificato è stata la Dichiarazione sulla fratellanza umana firmata nel 2019 ad Abu Dhabi con l’imam al Tayyeb di al Azhar, l’università egiziana che è il cuore del pensiero islamico sunnita. «Fratelli tutti» sarebbe diventato poi il titolo dell’enciclica da lui pubblicata dopo l’esperienza della pandemia, la malattia globale da cui saremmo dovuti uscire più uniti e che invece ci ha solamente reso tutti più soli e rancorosi verso gli altri.

Del resto proprio lui, papa Francesco, era stato il primo a cominciare a parlare di quella «guerra mondiale a pezzi» che oggi tutti riconosciamo come esperienza quotidiana. Andava «a briglia sciolta» anche nella sua visione geopolitica: come forse non sarebbe stato poi così difficile da prevedere in una Chiesa che vede il suo baricentro spostarsi verso il Global South, con l’argentino Bergoglio è finita l’idea del papa come «cappellano dell’Occidente». Nei suoi stessi viaggi e nelle nomine dei cardinali ha snobbato Paesi di antica tradizione cattolica per privilegiare frontiere missionarie dove i cristiani sono una manciata o sperdute isole dell’Oceania. Ha invocato incessantemente pace per l’Ucraina e Gaza, anche a costo di esporsi alla critica di non distinguere tra loro aggredito e aggressore. Ha chiesto personalmente più coraggio nelle scelte, per affrontare davvero il problema del cambiamento climatico. Tutte battaglie che ha perso, rimanendo alla fine drammaticamente inascoltato. Persino nel dialogo con Pechino, nonostante lo storico Accordo da lui voluto sulla nomina dei vescovi, i risultati sono stati molto inferiori alle attese (come si è visto dal profilo comunque basso tenuto dalla Repubblica popolare cinese in occasione della sua morte). «Meglio una Chiesa incidentata che malata». Anche nelle questioni geopolitiche.

È morto nel mezzo di un Giubileo che ha voluto intitolare alla virtù della speranza. Ed è su questo che gli storici probabilmente si interrogheranno tra cent’anni guardando alla sua figura: l’invito alla misericordia ha lasciato davvero un’impronta duratura nel cuore di 1,4 miliardi di cattolici nel mondo? La sua «terapia d’urto» ha scosso la Chiesa cattolica dal piano inclinato che la stava conducendo verso l’irrilevanza? Papa Francesco è uscito di scena nel momento in cui tutto sembrerebbe andare nella direzione opposta al messaggio che ha portato. Ma proprio il Vangelo che tanto ha amato parla di un seme che muore per poi portare frutto.