L’italiano pazzo e gli scatti in maniche di camicia

by Claudia

Fotografia: la retrospettiva di Monte Carasso dedicata a Mario De Biasi rivela quanto una donna in abito bianco e un uomo armato possano appartenere allo stesso sguardo

È ancora oggi considerata una delle immagini iconiche dell’Italia degli anni Cinquanta: una donna sinuosa, vestita di bianco, cammina verso un gregge di uomini incantati dalla sua bellezza. Uno spettacolo. Ma se Gli italiani si voltano (questo il titolo dello scatto) perché rapiti dalla donna, noi siamo rimasti invece stregati dalla serie a cui appartiene lo scatto, che può essere ammirata nel suo insieme lungo le pareti dello Spazio Reale di Monte Carasso, che ha avviato la nuova stagione con le opere del bellunese Mario De Biasi (1923-2013), fotoreporter tra i più apprezzati dell’Italia del dopoguerra. Intitolata L’intrepido cacciatore di immagini, la mostra resterà aperta fino al 18 maggio.

Dieci sono gli scatti della serie dedicata a «Moira», qui esposti. È il 1954 quando Mario De Biasi realizza lo scatto che, quarant’anni più tardi, il critico d’arte Germano Celant sceglierà per rappresentare la mostra Italian Metamorphosis, 1943–1968 al Guggenheim di New York: riconoscendone il valore universale e senza tempo, lo trasformerà nel manifesto dell’evento.

Al centro dell’immagine, Moira Orfei, all’epoca un’emergente trapezista circense ancora sconosciuta; indossa un abito bianco, scelto dallo stesso De Biasi per farne il cuore pulsante della composizione. La scena, che ha luogo nelle prime ore del mattino, nasce dalla collaborazione tra riviste appartenenti alla famiglia Mondadori: il direttore di Bolero Film, in crisi di vendite, ha chiesto al collega di «Epoca» di «prestargli il De Biasi», per rinnovare il settimanale con immagini di grande impatto.

La fotografia viene concepita seguendo i principi del neorealismo, quelli teorizzati da Cesare Zavattini, che invitano a raccontare la realtà con autenticità, spingendo i fotografi a osservare senza interagire con i soggetti. De Biasi abbraccia questa filosofia e trasforma le strade di Milano da semplice sfondo a set spontaneo, vivo e autentico (tutto il contrario di un’istantanea costruita in studio). Lui, in un pedinatore «occasionale». E Moira Orfei, in una donna dei desideri: in queste strade lei ha solo il compito di passeggiare e ancheggiare con disinvoltura, attirando lo sguardo incuriosito dei passanti, tra questi un uomo con le mani in tasca, un altro in sella a una Lambretta, e sullo sfondo, l’insegna della Barbaro Zucca. Quella femminilità travolgente e sicura di sé, unita alla genuinità degli sguardi rivolti alla Orfei, renderà lo scatto un manifesto sociale e culturale, ma immortalerà anche una miriade di frammenti della storia italiana, frammenti che si riflettono nei volti della gente catturata negli altri scatti: le donne per la via erano certamente poche rispetto agli uomini (dei quali si possono ammirare i diversi indumenti a seconda dello statuto sociale), ma alcune ci sono e tra queste, ad esempio, si fa notare una signora di età avanzata, non molto alta, tarchiata e in grembiule, a far da contraltare alla dea ancheggiante. Una vita e una leggerezza che si ritrovano pure negli scatti che seguono, siamo ancora nel dopoguerra, quando l’Italia, a sorsi di Coca-Cola, iniziò a riprendersi poco a poco.

Ma non è l’unica fotografia che continua a essere celebrata per il suo straordinario realismo. Splendidi sono anche gli scatti di molti personaggi politici e della cultura pop, che il bellunese cercava sempre di fotografare in modo diverso (e diremmo leggero, divertito) da come avrebbe fatto un fotografo di cronaca, tanto che soleva dire di voler immortalare i suoi soggetti «in maniche di camicia»: Nasser fu ripreso nella sua casa alla periferia del Cairo (1954) con i bambini in borghese, non in uniforme, due giorni prima del colpo di Stato; l’ex Presidente dell’Argentina, Perón, fu pregato di salire e posare sul ramo di un albero di Caracas; Onassis stava invece al telefono mentre spiegava come spostare delle navi, a New York; a Sophia Loren, durante la Mostra di Venezia, chiese di uscire dal bagno per scattarle la foto; mentre Toscanini fu ripreso in pigiama, all’interno di casa sua: «Fu la mia prima copertina di “Epoca”» (ndr. in tutta la sua carriera, De Biasi ne firmò ben 132, di copertine di «Epoca») racconta il fotografo in un bel documentario installato all’interno dello Spazio Reale di Monte Carasso. «Il segreto è conoscere il personaggio prima di andare a fotografarlo, devi sapere i suoi hobby se ama l’Inter o il Milan, se ama la pesca o la box, e così, chiacchierando, il personaggio si scioglie e diventa più spontaneo».

Scatti incredibili che non hanno tuttavia l’impatto storico di quelli che il fotografo fece un decennio prima e un paio di anni dopo la sua assunzione a «Epoca», per soddisfare la quale si mise spesso in pericolo, tanto da farsi attribuire a livello mondiale l’appellativo di «Italiano pazzo».

Quando le truppe tedesche iniziarono a prelevare con la forza molti giovani italiani per impiegarli nelle fabbriche o nei lavori pesanti all’interno del territorio del Reich, De Biasi venne catturato e deportato a Norimberga. Questa fase drammatica della sua giovinezza influenzò inevitabilmente il suo sguardo sul mondo, portandolo in seguito a sviluppare una capacità unica di cogliere l’essenza dell’essere umano, nel quotidiano come nello straordinario: «A Norimberga, in una sola notte son morte 27mila persone. È lì che ho iniziato; era il 1944 e la mia prima foto fu un autoscatto che mi feci – con una macchina fotografica presa in cambio di alcuni bollini per il cibo – nel giardino della casa in cui abitavo. Erano da poco suonate le sirene, ma io non andavo mai nei rifugi. Scattai mentre leggevo una rivista di fotografia trovata tra le macerie. Ancora la conservo, con la scheggia del bombardamento che la colpì mentre la tenevo in mano; e io invece sono ancora qui».

Lontano dall’eroismo e dalle retoriche belliche, il suo vissuto si riflette nelle immagini che avrebbe realizzato anni dopo: fotografie perlopiù in bianco e nero (ma non solo) dove, verrebbe da dire, l’osservazione si fa portavoce di chi ha conosciuto il lato più duro della storia, senza rimanerci sotto.

Rientrato in Italia, era il 1953, iniziò subito a lavorare per «Epoca» con un contratto da impiegato di seconda categoria. Qui rimase per 30 anni: «Nel 1960 diventai capo dei servizi fotografici e nel ’83 ho compiuto 60 anni e sono andato in pensione: è stata un’esperienza straordinaria anche perché ho potuto girare il mondo da una parte all’altra dei cinque continenti e ho fatto le cose più disparate». Tra queste va di certo ricordato uno dei suoi reportage più importanti, quello in Ungheria, nel 1956, durante i momenti drammatici della rivoluzione, che gli valse per l’appunto il soprannome di «italiano pazzo»: «Arrivati a Budapest – racconta – in ogni momento ci fermavano per la presenza di guerriglieri con bombe a mano, mitra, eccetera, tanto che a un certo punto l’autista dice “io non me la sento è troppo pericoloso”. Non avevo ancora la patente, però ero in grado di guidare». De Biasi prende l’auto e si avvia, venendo di nuovo fermato da uno che – dopo le sue insistenze – lo accompagnerà fino nella piazza dove si trova la caserma della polizia segreta. Quegli scatti – che furono poi pubblicati su 30 pagine della rivista e che in parte oggi si possono ammirare nell’esposizione, sebbene noi abbiamo dovuto distogliere lo sguardo da tanta cruda violenza, pur riconoscendone il valore storico – girarono il mondo intero facendo conoscere anche all’estero la bravura e il coraggio dell’italiano… pazzo.

Sfida dopo sfida, Mario De Biasi trasformò il fotogiornalismo, attraversando epoche, importanti eventi storici, e luoghi lontani ancora fotograficamente poco noti in Europa, portando i lettori della rivista in mondi lontani ed esotici, quando ancora i viaggi erano un lusso per molti italiani. Fu tra, i primi a documentare conflitti come la guerra del Libano nel 1958 e la guerra del Kippur del 1973, raccontando la complessità umana anche nei contesti più difficili, come quando immortalò un soldato in una scuola siriana, intento a scrivere una lettera di addio. Guerre a parte, tra le sue esperienze più memorabili, De Biasi considera la missione dell’Apollo 11 come la più straordinaria: quarantacinque giorni negli Stati Uniti, cinque speciali dedicati su «Epoca», incontri con gli astronauti Armstrong e Aldrin, e una fotografia iconica scattata durante il rientro a New York degli astronauti, realizzata in circostanze quasi impossibili.

Non si è però limitato a raccontare il mondo, Mario De Biasi. Lo ha attraversato, lo ha abitato, lo ha pure sfidato. E con ogni scatto – che sia di una diva che esce dal bagno o una rivoluzione che esplode in una piazza – ha restituito una realtà storica che non ha bisogno di didascalie.