Stati Uniti in crisi

by Claudia

Il Paese è la prima vittima della rivoluzione che Trump sta cercando di attuare

C’è un solo punto fermo nei primi cento giorni di Trump alla Casa Bianca. L’America ha perso la sua credibilità nel mondo. Quello che prima era un parametro universalmente riconosciuto, da amici e nemici, oggi sembra in balìa delle onde o degli umori del suo presidente. Al di là di qualsiasi sommovimento geopolitico, economico o finanziario, in questione è ormai il primato americano. Il primato, non l’egemonia. L’egemonia è già una fase passata. Washington pensa di rimanere il «numero uno», ma forse non lo è nemmeno più. Detto altrimenti, l’America è la prima vittima della rivoluzione che Trump sta cercando di attuare nel suo Paese.

Negli Stati Uniti stanno venendo al pettine contemporaneamente troppi nodi che non sono più gestibili. Innanzitutto la crisi di identità: gli americani non si riconoscono reciprocamente tali, si vedono semmai come appartenenti a questa o quella tribù. La crisi di identità si riflette anche a livello politico. Democratici e repubblicani sono famiglie variopinte ma incomunicanti. Cominciano a esserlo persino al loro interno. Per esempio, ancora non si sente un’autorevole voce democratica che si impegni a capire come mai la crisi del suo partito abbia portato Trump al potere. In parole povere, manca senso critico e soprattutto autocritico. L’incomunicabilità investe anche le élite economiche e finanziarie. Ad esempio, nel campo trumpiano la posizione, peraltro spesso incerta, di Musk è molto diversa da quella dei padroni dell’intelligenza artificiale riuniti da Trump in un improbabile trust da 500 miliardi, che dovrebbe permettere agli Stati Uniti di continuare a prevalere sulla Cina in questa tecnologia strategica.

La battaglia decisiva si combatte nello Stato profondo. Trump ha affittato Musk per distruggerlo, attribuendogli la responsabilità di questa operazione estremamente delicata e pericolosa, nella certezza di potere scaricare il padrone di Tesla a operazione compiuta. Ma lo Stato profondo, struttura tipicamente imperiale, non può essere semplicemente distrutto con un colpo di mano. La reazione di strutture di intelligence, militari e delle alte burocrazie in genere è poco visibile ma violenta. Tanto che non si può escludere che prima o poi qualcuno, proveniente da quelle profondità, attenti nuovamente alla vita del presidente. Inoltre, Trump non ha calcolato un altro fattore: Musk non si limita a licenziare persone a suo dire inutili e costose, ma quando e dove può installa al loro posto suoi fedelissimi. Un esempio fra i molti è la Nasa, celebre istituzione pubblica deputata alla ricerca e allo sviluppo della scienza e delle tecnologie relative al cosmo, ormai infeudata al padrone di Starlink. Solo un esempio della compenetrazione crescente tra imprenditoria privata e istituzioni pubbliche, dove sono i capitalisti a politicizzarsi. Ma avviene anche il contrario, considerando che ormai ciò che in America residua della democrazia si profila sempre più come plutocrazia. Se non hai i soldi non vai da nessuna parte, certamente non al Congresso o nell’amministrazione del presidente. L’avversaria principale di Trump e degli Stati Uniti è considerata la Cina. Certo, Pechino ha i suoi enormi problemi, economici quindi anche politici. Ma può contare sulle debolezze dell’America per guadagnare posizioni e credibilità nel mondo. I dazi abbastanza indiscriminati e variabili imposti da Trump alle principali economie asiatiche, Giappone in testa, facilitano la formazione di una sfera di influenza cinese in Asia. Ovvero il principale obiettivo strategico della Repubblica popolare.

I recenti approcci tra Cina, Giappone e Corea del Sud – Paesi storicamente nemici – rappresenta proprio la risposta, quasi inevitabile, di Paesi asiatici geopoliticamente avversi a Pechino di fronte alle intimidazioni di Trump. Chi sta peggio di tutti, in quel contesto, è Taiwan. I cinesi aumentano la pressione e le provocazioni militari, contando sul grado impressionante di smarrimento che regna a Taipei in seguito alla svolta negli Stati Uniti. Quanto agli europei, più divisi che mai, stanno cominciando a capire che l’ombrello americano non funziona più (ammesso e non concesso che abbia mai funzionato). Ognuno deve ritagliarsi uno spazio di sicurezza ed economico in base alle proprie forze e capacità. Non proprio l’Europa ideale.