Le donne scelte da Trump

by Claudia

Dalla «wrestler» Linda McMahon all’intransigente Karoline Leavitt, passando per Pam Bondi e la «pericolosa» Kristi Noem

È innanzitutto una questione di immagine: se intorno a te hai poche donne in posti di potere, è bene che facciano cose vistose, d’impatto. E se non sono competenti e qualcuno lo fa notare, basta gridare, senza vergogna, al maschilismo con quell’aria di spiccia sufficienza con cui Donald Trump sta facendo perdere la pazienza al mondo, ai mercati, agli imprenditori, alle persone normali, a chi ha sempre creduto che l’America fosse già «great» e ora, davanti alle ultime evoluzioni, non sa più cosa pensare. Un terzo dell’amministrazione in carica è formata da donne, ma sono lontani i tempi in cui una competentissima Condoleezza Rice poteva sconvolgere il mondo con il suo cinismo come segretaria di Stato di George W. Bush, ma anche con la sua complessa storia intellettuale, dall’università iniziata a 15 anni alla conoscenza profonda dell’ex Unione Sovietica. Qui si tratta di accettare che a occuparsi dell’Istruzione, e quindi del futuro del Paese, sia la persona che ha reso il wrestling uno sport diffuso e amato, e pazienza se violenza, sessismo e steroidi siano stati un modello nefasto per generazioni di ragazzini: Linda McMahon, insieme all’ex marito, ha fatto i miliardi tra sponsor e merchandising e ora sta a lei smantellare il dipartimento di cui è stata messa a capo, quello dell’Education, con l’obiettivo di ridare in mano il dossier ai singoli Stati, senza nessuna esperienza in materia, ma con un passato in cui si è prestata a teatrini ben poco pedagogici come quello in cui dava un calcio nell’inguine all’ex marito o quell’altro in cui prendeva a schiaffi e metteva a terra sua figlia Stephanie. Tutto per finta, per carità, ma insomma.

Oppure affidare l’Intelligence nazionale a Tulsi Gabbard, ex deputata democratica e addirittura sostenitrice di Bernie Sanders, una che poi, nel 2020, dopo essersi ritirata dalle primarie democratiche ha fatto una virata a destra di quelle davvero brusche: è diventata repubblicana e ha iniziato a fare l’opinionista su «Fox». Senza vera esperienza nel settore, al di là dell’essere stata nelle commissioni parlamentari, ora Gabbard guida 17 organismi di intelligence e non ha trovato niente da dire quando i dettagli sugli attacchi agli houthi nello Yemen sono stati condivisi nella famosa chat con il giornalista dell’«Atlantic». Ma proseguiamo. La figura più solida è sicuramente quella di Susie Wiles, prima chief of staff donna della storia degli Stati Uniti e decisa nell’affermare che intorno a Trump ci siano «donne forti e intelligenti». Descrive il suo lavoro come l’esercizio di «una sorta di controllo sul fatto che i treni stiano sui binari e arrivino in orario, in modo che gli esperti in materia, e in particolare il presidente e il vicepresidente, possano fare quello che devono per aggiustare il Paese». I commenti pesanti, ineleganti del presidente nel corso della sua lunga vita – alcuni sono ormai arcinoti, altri continuano a saltare fuori – non sembrano disturbare un elettorato femminile che stavolta si è lasciato conquistare e che preferisce essere rappresentato da poche figure dal profilo tradizionale – sono quasi tutte curatissime, pettinatissime, con i boccoli e le ciglia finte, devote vestali dell’estetica trumpiana, ma anche della sua etica – che non da donne pronte a condividere il palco con altre istanze, come quella LGBTQ+, o altre tematiche ritenute «woke».

La religione è sempre presente, come dimostra il vistoso crocifisso che indossa sempre Karoline Leavitt, la responsabile per la stampa più giovane di sempre, 27 anni, ex stagista della precedente portavoce ai tempi del primo mandato. Nel frattempo, ha anche avuto un figlio, l’estate scorsa, dal marito di 32 anni più grande, ed è tornata al lavoro dopo appena 4 giorni perché il 13 luglio hanno sparato a Trump e lei ha pensato che il suo posto fosse accanto al presidente. Per Leavitt a Trump «non importa se sei un uomo o una donna, con figli o senza figli. Vuole solo la persona che lavora di più e la migliore per quel lavoro. Ed è questo che lo rende un grande capo». La ragazza ha molto potere e ha escluso dalla sala stampa i rappresentanti delle testate che non hanno accettato di ribattezzare il Golfo del Messico «Golfo d’America», non risponde a chi specifica i pronomi con cui vuole essere chiamato in fondo alla mail e ha detto ai vecchi giornalisti di farsi da parte, perché il mondo è degli influencer e dei podcaster.

E poi ci sono i due pezzi da novanta, la bionda Pam Bondi che guida il dipartimento di Giustizia dopo essere stata la procuratrice capa della Florida e aver difeso Trump al processo per l’impeachment nel 2020. Anche lei era democratica fino al 2000, poi con il tipico zelo dei convertiti ha sostenuto le false accuse di frode elettorale, si è messa a lottare contro i diritti LGBTQ+ e le cure sanitarie per tutti e ora porta avanti la sua linea durissima sul crimine, chiede la pena di morte per Luigi Mangione (accusato d’aver assassinato il 4 dicembre 2024 Brian Thompson, ceo della compagnia di assicurazione sulla salute United Healthcare) e si dedica al suo compito di «Make America Safe Again». Quella che ha avuto più visibilità ultimamente è stata Kristi Noem, segretaria per la Sicurezza interna, e quindi responsabile di frontiere e dogane, rappresentante del lato più muscolare del messaggio trumpiano. Si mette le uniformi, visita i centri di detenzione, lascia che le lunghe extension corvine le ricadano su tenute dal sapore militare mentre dietro di lei sfilano spettacoli disumani, e fa gaffes pericolose: nell’ultima aveva un fucile puntato per sbaglio contro la testa di una guardia di frontiera con cui si era messa in posa. La mano era vicina al grilletto.