I passi disordinati del presidente degli Stati Uniti porteranno alla sua disfatta? E chi ci guadagna?
Come ricordava spesso Giulio Andreotti, con romana ironia, «a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca». Proviamo ad applicare questo motto al caso delle rivelazioni sulla riunione riservata dei vertici americani intorno ai bombardamenti contro gli huti. Azzardiamo quindi che il direttore di «The Atlantic» non sia stato messo per errore nella lista degli abilitati all’incontro, ma che a invitarlo, o a farlo invitare, sia stato qualcuno interno agli apparati statunitensi. Una persona che avesse interesse a colpire l’amministrazione Trump per screditarla davanti all’opinione pubblica americana e internazionale. D’altronde tale interpretazione darebbe un senso meno improbabile a quanto sta accadendo negli Stati Uniti. Le spiegazioni piuttosto banali su cui l’amministrazione Trump ha insistito in questi giorni, cioè che si sia trattato di un incidente di poco peso e che comunque non riguardasse segreti, non convince granché la stessa opinione americana. Secondo un recente sondaggio, addirittura tre su quattro sono i cittadini statunitensi che considerano poco credibile la tesi di Hegseth e associati. Quanto finora emerso dai documenti filtrati alla stampa conferma che si sia trattato di rivelazioni classificate.
Questo incidente, comunque lo si voglia interpretare, conferma l’idea di un notevole dilettantismo praticato ai piani alti del sistema decisionale americano. Dilettantismo forse accentuato dalla scelta di Trump di procedere al galoppo, cercando di ottenere il massimo dei risultati e dell’eco possibile già nelle prime settimane di Governo. Affastellando dazi, controdazi, proclami contro Paesi alleati e amici, attacchi diretti alla leadership ucraina solo parzialmente ritrattati e rivendicazioni territoriali senza precedenti nella storia non solo americana, l’inquilino della Casa Bianca dà l’impressione di avere una fretta maledetta. Voleva essere un effetto sorpresa. Lo è in parte, ma il vantaggio è largamente compensato in senso contrario dalla confusione che sta generando. E non solo fra i suoi avversari americani o fra i suoi molti critici esterni, ma anche all’interno di una squadra di Governo molto eterogenea.
Qui si incrociano professionisti della politica, come il segretario di Stato Marco Rubio (certamente non trumpiano), elementi di primo piano degli apparati, come la direttrice dell’intelligence Tulsi Gabbard, e personalità molto discutibili, come il segretario alla Difesa Pete Hegseth. Accanto a essi, una rappresentanza di poteri forti privati, economici, tecnologici e finanziari, di cui Elon Musk è il simbolo. Il risultato è una minestra difficilmente mangiabile, anche per chi la produce. Si può quindi considerare non irrilevante il rischio che il missile partito dalla Casa Bianca il 20 gennaio di quest’anno perda pezzi rapidamente. Che cosa accadrebbe se, da una crisi all’altra, Trump fosse costretto sulla difensiva o addirittura avviato verso l’impeachment? Il caos generato in queste poche settimane diventerebbe difficilmente governabile. Avviare contemporaneamente un cambio di regime interno e un cambio di regime internazionale è operazione finora mai vista, ad altissimo rischio. In ogni caso destinata a produrre enormi effetti, sia nel caso riuscisse, ancor più se dovesse fallire. Ciò riguarda in maniera molto diretta i cosiddetti «alleati europei», che si stanno faticosamente riprendendo da una sorpresa in fondo non così sorprendente.
La bomba Trump è esplosa nel mezzo dell’Atlantico sollevando onde di tempesta sulla sponda europea e molte preoccupazioni su quella americana. Soprattutto, ha messo in rilievo l’obsolescenza dell’organizzazione militare (Nato) ed economica (Ue) dell’impero europeo dell’America. Considerato insostenibile, nelle forme attuali, da Trump e associati. Si susseguono le riunioni dei cosiddetti «volenterosi», squadra «europea» che cambia continuamente formazione e che nell’ultimo vertice di Parigi è arrivata a includere oltre agli ormai soliti canadesi, norvegesi e turchi anche l’Australia. Insieme, ha messo in evidenza la crisi interna all’Anglosfera. I famosi Five Eyes, massimo sistema spionistico al mondo – formato da Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda – si dividono su sponde opposte. Al vertice l’America di Trump che minaccia di annettersi il Canada e abbandona a sé stessa Londra, che insieme all’Australia, in attesa magari della Nuova Zelanda, si scopre un’anima incredibilmente europea. Chi sembra avvantaggiato dal ciclone Trump, oltre alla Russia, è la Cina. Sarebbe però sbagliato credere che Xi Jinping osservi solo con soddisfazione lo spettacolo che gli si spalanca davanti. Un eccesso di confusione in campo occidentale potrebbe impedire di sedare davvero la guerra in Ucraina e scatenare reazioni a catena difficilmente governabili, potenzialmente estese a tutto il mondo, Indo-Pacifico compreso. Di sicuro, il leader di Pechino inclina a immaginare che il sospetto andreottiano di un complotto interno alla potenza americana abbia qualche fondamento. La Cina è in competizione con gli Usa, ma l’ultima cosa che vorrebbe è la disintegrazione del nemico. Perché a quel punto un esito bellico della competizione sarebbe quasi inevitabile.