La vendetta di Lorenzo Alì sotto il segno di Fantomas

by Claudia

[Segue dal numero 10 di «Azione»]. Il «moro» (non più servo ma ladro, il giovane Alì non viene più chiamato «negro») nascose i vestiti e armato di scalpello cominciò a rovistare nello studio dell’ambasciatore. Non gli interessavano i documenti riservati che pure vi erano custoditi, solo soldi e oggetti che avrebbe potuto rivendere. Forzò un piccolo scrigno di legno e prelevò cinquanta lire in argento; dalla scrivania «un bell’orologio artistico in argento», e da un cassetto aperto due porta-sigarette e due (secondo un altro giornalista quattro) pacchetti di sigarette egiziane. Bottino deludente. Provò a forzare uno dei tiretti, che però non cedette. A quel punto, saranno state ormai le undici di notte, sentì un rumore di passi: Sua Eccellenza l’Ambasciatore era tornato. «Alì non si lasciò vincere dalla paura: con un salto raggiunse un angolo del salone e prese la perfetta posizione verticale addossandosi al muro. Rattenne il respiro». Rennell Rodd entrò nello studio, ma non lo vide, e uscì quasi subito. Alì rimase ancora fermo nell’angolo per una ventina di minuti poi si rivestì, arraffò l’esiguo bottino e fece per fuggire. Ma non intendeva arrendersi: individuò una pesante cassa di ferro e, nella speranza che contenesse un tesoro, la sollevò e se la assestò sulle spalle. Tentò di svignarsela, ma il peso era eccessivo e non poteva aprirla – per la fretta e la mancanza di strumenti adatti. «Così Alì con la più profonda melancolia e grande sconforto dovette abbandonarla inviolata in un’altra stanza, e si allontanò».

L’indomani il furto venne scoperto dal maggiordomo Domenico Barbero, e denunciato al commissariato di Castro Pretorio. Il vice-commissario cavalier Mascioli, noto come abile investigatore, interrogò il personale di servizio dell’ambasciata d’Inghilterra, ma tutti riuscirono a dimostrare la loro innocenza – ricordando però il «servo» nero licenziato dal barone e mettendo la polizia sulle sue tracce. Il brigadiere Vannozzi e la guardia Buesi si presentarono a via del Babuino 36, nella casa della contessa Anna Fugger, presso la quale Alì aveva lavorato l’anno prima «come servo». Benché la contessa lo avesse licenziato, quando Alì si era ritrovato «senza pane e senza tetto» gli dava «ogni tanto qualche lira». Non lo presero lì, ma nel retrobottega della latteria Taddei, al civico 171, dove «il moretto capitava sovente e dove gli era consentito tenere la sua roba».

Il sudanese fu arrestato e condotto al commissariato di Castro Pretorio. Interrogato dall’esperto Mascioli, dapprima Alì negò tutto, poi confessò, sostenendo di aver commesso il furto «per vendicarsi del licenziamento, che non riteneva giusto». «La Tribuna» accettò la sua motivazione, usando La vendetta del nero come sottotitolo. Dal Conte di Montecristo in poi, il pubblico amava le storie di vendetta, e comprendeva la rabbia di chi cerca di riavere ciò che gli è stato tolto. La refurtiva, trovata durante la perquisizione, oltre agli oggetti già citati comprendeva un timbro d’oro con lo stemma dell’ambasciata e diverse paia di pantaloni, scarpe, maglie e biancheria. I soldi, Alì li aveva già spesi.

Il giornalista (forse uno degli scrittori che collaboravano a «La Tribuna») romanzò la cronaca del furto, usando la deposizione del ladro. Dall’incalzante narrazione trapela una certa simpatia per il Fantomas Alì. Assente invece nelle scarne cronache de «Il Messaggero», «Il Giornale d’Italia» e «Il Popolo romano». L’ultima apparizione di Alì è in un’aula della seconda sezione penale feriale del Tribunale, dove si svolse il processo per direttissima. Ribadì la tesi della vendetta, il difensore (d’ufficio) non riuscì a renderla convincente e il presidente, il cavalier Michele Tommasi, lo condannò a dodici mesi e diciannove giorni di reclusione.

A differenza del Fantomas dei romanzi e dei film – sempre impunito o comunque capace di evadere – Lorenzo Alì finì in prigione, a Regina Coeli. Se amava l’imprendibile criminale (come i suoi contemporanei, come i registi Fritz Lang e Ejzenštejn e poi i surrealisti), avrà ingaggiato un duello con le guardie e le istituzioni, tornando a delinquere. Nessun altro lavoro poteva trovare, nell’Italia xenofoba e incattivita dalla guerra, il «negro» Lorenzo Alì.

La vendetta di Lorenzo Alì sotto il segno di Fantomas