Pubblicazioni: da alcune settimane online sulle maggiori piattaforme, Sennentuntschi è un podcast che prende spunto da un’antica leggenda dell’arco alpino
Viviamo un tempo orrendo, in cui una perenne sensazione di pericolo sembra impestare l’aria. A farsi carico di questo sentimento sono, anche, le iniziative culturali indipendenti che, assieme al vivere di tutti, manifestano l’inquietudine di un’epoca della quale non si riesce ad afferrare il senso. Al suo esordio alla radiofonia, Simona Sala – giornalista culturale che in questa sede non ha bisogno di presentazioni – affronta la preoccupante questione dell’aggressività maschile attraverso il racconto della Sennentuntschi, leggenda svizzera decisamente aliena a simpatici miti montani quali l’asimmetrico ungulato dahu o l’adorata Heidi.
Realizzato in collaborazione con l’Associazione REC per la cura di Olmo Cerri, Sennentuntschi, una ricognizione. Viaggio nell’anima nera delle Alpi è un podcast in tre episodi, da pochi giorni disponibile sulle maggiori piattaforme, che prende le mosse dall’omonimo racconto pubblicato dalla stessa Sala per Abendstern, casa editrice promotrice dell’evento.
Non credo che alle nostre latitudini i più siano a conoscenza di quest’antica storia, i cui primi cenni risalgono, ci rivela l’autrice, al 1500. A sentirla, la mente vola subito a Frankenstein che, guarda un po’, fu concepito in Svizzera, come pure al Golem o al mito di Pigmalione, il re di Cipro innamoratosi della statua da lui stesso scolpita. Ma, personalmente, soprattutto i pensieri vanno alla bambola di Oskar Kokoschka, il grande pittore austriaco che, al fine di elaborare la perdita dell’amata Alma Mahler, ne fece fare una copia da una costruttrice di pupazzi per poi smembrarla durante i sollazzi di una festa privata.
Il racconto, di cui «esistono oltre cento versioni», è il seguente: viene il tempo della transumanza e i pastori sono costretti all’ascesa all’alpe, dove trascorreranno la bella stagione nel più completo isolamento. Tre di loro, in questa sede chiamati Hans, Pit e Armin (ma che pure avrebbero potuto essere Tizio, Caio e Sempronio), arrivati in altura sono preda della malinconia e fanno strani progetti. La montagna, si sa, rende folli («tutta quella roccia che cresce nei cervelli», scriveva Thomas Bernhard in Amras) e tener duro è fatica. Una sera decidono quindi di costruirsi una bambola con una scopa e degli stracci, così che la noia e la solitudine costino meno. Presto, però, il gioco si fa torbido: con la Sennentunschi – letteralmente la «pupazza degli alpigiani» – i tre ballano, mangiano, bevono e, a turno, danno libero sfogo agli istinti.
Ecco che allora qualcosa accade. Quasi a suggerire che ogni rappresentazione, per chi non ne è conscio, non è mai solo tale e che il simbolico ha un peso, magicamente la bambola prende vita e, col passare dei giorni, reclama sempre più cibo. Inquieti per l’accaduto e per l’illiceità delle proprie pratiche, i tre vanno avanti tra sbronze, pastorizie e copule con una «cosa» che più cosa non è. D’altra parte chi fa teatro lo sa: quando si investe di significato un oggetto è come se questo cominciasse ad avere occhi, come se restituisse l’attenzione rivoltagli. Certi di potersene sbarazzare a fine estate, Hans, Pit e Armin si preparano a scendere a valle. Ignorano di aver evocato uno spirito che li metterà di fronte alla rimossa legge della vergogna e alla vendetta, richiedendo loro, come direbbe Shakespeare, «una libra di carne» con cui saldare il conto di quanto consumato.
Attraverso brani affidati a interpreti, ricostruzioni, scene di fiction e incontri, Simona Sala narra all’ascoltatore quanto si è coagulato, negli anni, attorno a questo mito, a cominciare dalla redazione nel 1971 dell’omonima pièce di Hansjörg Schneider e alla trasposizione televisiva di quest’ultima, quando, nel 1981, autore, attrice protagonista – la coraggiosa Maja Stolle – ed ente pubblico furono pubblicamente accusati di pornografia da parte dei media.
Seguono poi conversazioni a tema con personalità quali Marco Bosia, dal quale si apprende come, nelle valli, una coatta promiscuità consanguinea fosse d’uso per non disperdere i patrimoni terrieri. O, ancora, con l’etnologo Peter Egloff, che, oltre ad aver studiato la leggenda della Sennentunschi, ha rinvenuto un modello della bambola durante un’escursione in Val Calanca. Le riflessioni di quest’ultimo sul fenomeno degli accorpamenti maschili gettano una chiara luce sulle dinamiche di quella perversa violenza di gruppo (oggi più che mai presente e di proporzioni angosciose) che giustifica se stessa attraverso la presenza alienata di complici – sull’argomento si consiglia la lettura di Non farti fottere (Rizzoli, 2024) di Lilli Gruber, dove il fenomeno è accostato alla capillarità del porno online.
In conclusione Sennentuntschi è un esordio partecipe, con una posta in gioco, le cui criticità – alcuni problemi di misura ed equilibrio nella distribuzione dei materiali nelle puntate, l’artificiosità di certe ricostruzioni sceniche o alcuni punti che sarebbe stato più interessante approfondire rispetto ad altri – influenzano solo parzialmente l’insieme dell’opera. Ci si augura, quindi, si tratti del primo atto di un percorso di cui si è curiosi di scoprire il seguito.