Tra le sinuose architetture coloniali, il carnevale avvolge la Città Alta come un serpente danzante, mentre le stradine trasudano storia, spiritualità e un’intrinseca saudade sospesa per cinque giorni
All’aperto, un teatro barocco di chiese e conventi. Sembra nato spontaneamente, sparso nella vegetazione tropicale di una collina che sa di vento e di mare, mentre giù in basso una lunga mezzaluna di sabbia si perde fino alla skyline di grattacieli di Recife, ruggente capitale dello stato brasiliano di Pernambuco. Un contraltare perfetto per le sinuose architetture coloniali di Olinda, A Linda, «la Bella» come i portoghesi l’avevano battezzata ancora prima di costruirla.
Oggi è una capsula del tempo arrivata intatta fino a noi, con il suo labirinto di stradine che serpeggiano verso il cielo incastrate tra le geometrie di muri dal bianco accecante della Cidade Alta, la «Città Alta» oggi Patrimonio UNESCO.
Madonne e chiese dorate
Nella fresca penombra del cinquecentesco monastero di São Bento, che trasuda devozione e horror vacui, madonne luccicanti come la vetrina di un gioielliere sorvegliano le tonache bianche di monaci che svaniscono dietro misteriose porticine, mentre l’ultima nota di un canto gregoriano è ancora sospesa nell’aria.
Non avevano badato a spese gli antichi signori della canna da zucchero, ricoprendo d’oro le loro chiese, forse per farsi perdonare il modo in cui trattavano gli schiavi o piuttosto per dimenticare che, anime in pena o no, erano pur sempre dei precari ridotti a pregare tutti i santi del loro paradiso di tenere lontani i pirati. Arrivarono invece gli olandesi, che nel 1631 bruciarono Olinda e poi, prima di essere cacciati, da gente pratica quali erano, si impadronirono dei segreti per coltivare la canna da zucchero.
Il Regno degli Sconvolti
I portoghesi ricostruirono la città, ma da allora Olinda è scivolata per sempre in un tempo sospeso impregnato di saudade. Una malinconia che però, una volta all’anno, si concede una pausa di centosettanta ore di follia da reggere senza perdere un colpo per sopravvivere. Un carnevale che scivola tra i vicoli come un gigantesco serpente umano, che ti avvolge, quasi ti soffoca in un grumo di emozioni.
Gli abitanti lo chiamano Regno degli Sconvolti, per il marketing turistico è il «Carnevale più lungo del mondo» ma per gli avventori di un bar in rua do Amparo, dove anche i colori delle case ricordano i costumi di carnevale, «è la cosa più importante che possediamo. Qui non ci sono scuole di ballo né competizioni come a Rio o a Bahia, puoi divertirti senza differenze sociali e non devi comprare un costume per partecipare, c’è un bloco chiamato “A corda”, un gruppo che trascina una grande corda, nient’altro. C’è chi arriva dall’altro capo del mondo, dopo aver lavorato tutto l’anno per potersi permettere questi cinque giorni che valgono un anno. Dalla mezzanotte di Giovedì Grasso il centro storico viene invaso da fiumane di gente che balla e si diverte, magari ha una vita piena di sofferenza, ma durante il carnevale si libera. Qui la parola carnevale significa proprio questo, fare il contrario di quello che si fa tutti i giorni, per questo il carnevale non morirà mai».
Sesso, droga e frevo
Fatima però la pensa diversamente e mi arpiona da dietro una porta per rivelarmi che «il carnevale è morto, soffocato da sesso e droga. Prendi il lança-perfume, una volta era il profumo che i ragazzi spruzzavano per galanteria sulle spalle delle ragazze, oggi ti sparano addosso un micidiale solvente che ti lascia dieci secondi KO con un effetto poing… poing… capisci?». Per altri «serve una buona alimentazione, un buon addestramento fisico e una buona idratazione» come spiega con incrollabile fede Francisco, coordinatore di un gruppo di danza. «Dobbiamo allenarci tutto l’anno perché qui ogni festa finisce sempre in frevo. La capoeira, l’arte marziale degli schiavi, è la madre o il padre, non saprei, del frevo che qui è cultura e non folklore come a Bahia dove un mese dopo il carnevale non se lo fila più nessuno».
Il frevo è un inestricabile mix di musica e danza a partire dal nome, corruzione della parola «febbre», in varie versioni, dal frevo da rua accompagnato dall’indispensabile ombrellino per equilibrare i movimenti del corpo, a frevo de bloco o frevo de cançao cantati. Pochi però sono disposti a svelare che il vero segreto per affrontare questo carnevale è il Pau do indio, il «Palo dell’Indio», un intruglio infernale indispensabile per le ventiquattro ore di delirio, da martedì a mercoledì che trasformano Olinda in un serpente mobile di corpi danzanti. Un tempo dilatato che per gli irriducibili dura fino a venerdì mattina, carburato da cachaça, l’acquavite di canna da zucchero, e frevo, prima di crollare sul selciato.
Arte e cultura popolare
Per Josè, in arte Ze Som pittore con le mani, «il carnevale lo stanno rovinando i politici che per soldi e voti lo hanno svenduto alle multinazionali della birra». Lui è uno dei tanti artisti che hanno trasformato Olinda in un gigantesco atelier dove arte e cultura popolare convivono con i grandi tamburi di legno di palma che suonano i ritmi del maracatù, sottofondo quasi ossessivo dell’incoronazione del Rey do Congo e della Reina da Angola, un’antica tradizione degli schiavi, che ancora oggi volteggiano per le strade circondati da damas do paço, le dame di palazzo, vassallos e bahianas.
Un rito che esplode ogni anno il sabato mattina a Recife con il Galo da Madrugada, roba da Guinness dei primati. «Perché a Rio una scuola di samba mette insieme non più di cinquemila persone, qui siamo un milione e mezzo, senza di noi il carnevale non può cominciare» sibila roteando gli occhi spiritati come se parlasse di un’apparizione divina l’engenheiro responsabile di un faraonico carro allegorico.
Pupazzi di carta
Al pomeriggio tutti si riversano a Olinda per veder sfilare i bonecos gigantes, giganteschi pupazzi di cartapesta alti come una casa di due piani, capitanati dall’Homem da Meia Noite. Il loro padre indiscusso regna su un diabolico groviglio di mani e piedi di cartapesta che sembra un reparto di ortopedia oversize. «È il pronto soccorso dei miei quattrocentosettantasei figli, i bonecos» spiega con una risata omerica Silvio Botelho. «Li comprano per il carnevale, ma li usano anche i politici per i comizi e le aziende per le campagne pubblicitarie perché si sono trasformati in un veicolo di marketing. Ho altri figli in carne e ossa ma loro sono i migliori, non si lamentano del cibo, non si ammalano, non dicono mai parolacce né si comportano da maleducati, vuoi mettere la soddisfazione di essere padre di gente così?»
D’altronde qui i personaggi mitici sono di casa, e se non ci sono più, le loro immagini a volte sbiadiscono lentamente sui muri come Mário Medeiros Raposo, O lord de Olinda che se ne è andato nel 2006 dopo oltre sessant’anni in cui ogni giorno è uscito per strada in costume da nobile inglese, cilindro incluso.
Hanno visto di tutto i vicoli di Olinda, capaci di esplosioni che fanno tremare i muri quando le finestre del «Club delle canaglie» si spalancano per un frevo forsennato, ma anche di romantiche Serenatas di celestiali e anziane signore che suonano ritmi dolcissimi al violino. Poco lontano la strada si riempie di pensionati sbronzi e felici che ballano furiosamente mentre una drag queen appollaiata in cima a un balcone si contorce come un serpente.
Olinda va vissuta, sorseggiando una caipirinha e respirando l’elettricità del carnevale che arriva e, giorno dopo giorno, si infila tra strade che precipitano verso l’azzurro dolce dell’Oceano.