L’intervista - L’ex direttore generale della SSR Roger de Weck racconta la sua appassionata difesa della professione nell’ultimo libro Das Prinzip Trotzdem
Il giornalismo è in crisi. Il calo costante della pubblicità costringe molte testate a chiudere, anche in Svizzera. E la gente sembra informarsi soprattutto sui social, che hanno vampirizzato i media tradizionali, risucchiando e rilanciando notizie che vengono poi mescolate a comunicazioni incomplete, poco significative o del tutto inventate, generando una bolla di disinformazione in cui il vero è indistinguibile dal falso. Come può difendersi il buon giornalismo da queste derive che lo soffocano e rischiano di indebolirlo mortalmente? Salvandolo dai media. È questa la provocatoria soluzione proposta da un saggio di recente pubblicazione, scritto con passione e lucidità da Roger de Weck, giornalista di lungo corso ed ex direttore generale della Radiotelevisione svizzera. Il volume, Das Prinzip Trotzdem – Warum wir den Journalismus vor den Medien retten müssen (che tradurremmo come: Il principio del nonostante tutto – Perché dobbiamo salvare il giornalismo dai media), edito da Suhrkamp, è un’analisi profonda dei mali che affliggono il giornalismo contemporaneo. E al tempo stesso un invito a resistere: a praticare un giornalismo serio nonostante le difficoltà economiche, la pressione dei social media, la disinformazione e l’ascesa del populismo autoritario. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Roger de Weck, lei scrive: «La democrazia ha bisogno del giornalismo, il giornalismo ha bisogno della democrazia». La crisi del giornalismo è quindi un riflesso logico della crisi della democrazia o è solo una conseguenza della mancanza di mezzi economici?
Le due crisi si sovrappongono. La crisi del modello di business degli editori indebolisce il giornalismo. A causa della mancanza di mezzi, esso perde competenza e indipendenza. Ciò danneggia la democrazia. Viceversa, l’ascesa dell’autoritarismo, che attacca la libertà dei media, aggiunge ulteriori difficoltà al giornalismo che, in ogni caso, ha perso il suo monopolio di «gatekeeper» (colui che decide quali notizie vengono pubblicate e quali no, ndr) nella diffusione delle informazioni.
Nel suo libro lei sostiene che il giornalismo si adatta ai meccanismi dei social media: «Boulevardigitalisierung». Il giornalismo si sta trasformando sempre più in marketing?
Un tempo la pubblicità e i piccoli annunci finanziavano il giornalismo per due terzi – tre quarti. Ora sono migrati verso le reti sociali, i motori di ricerca e i mercati online. Ormai il giornalismo deve finanziarsi con le sue vendite. Ma si vende solo ciò che ha sostanza. Per questo gli editori dovrebbero investire nelle redazioni. Ma per mancanza di soldi o di coraggio fanno il contrario: operano tagli netti. E queste ultime cercano di mascherare la loro perdita di sostanza con un sensazionalismo crescente nella scelta dei soggetti e nella loro presentazione, anche perché ogni articolo deve essere «allettante» per attirare i lettori sui social network. Tuttavia, il tentativo di massimizzare i «clic» nel breve termine non fidelizza i lettori nel lungo periodo. Al contrario, una parte del pubblico prende le distanze da un giornalismo ipernervoso in un mondo ipernervoso. La maggior parte dei giornali regionali non ha i mezzi per rafforzare la propria redazione, motivo per cui dovrebbe ricevere aiuti agli investimenti da parte delle autorità pubbliche. Al contrario, alcuni grandi giornali ben dotati di capitale dimostrano che è perfettamente redditizio investire nel giornalismo nell’era digitale. «Le Monde» ha aumentato la sua redazione da 300 a 550 giornalisti. E il numero di abbonamenti è raddoppiato da 300’000 a 600’000.
Cosa è più pericoloso: la scelta delle priorità informative affidata agli algoritmi o l’uso strumentale dei media da parte di forze politiche populiste?
Tutti e due. C’è un’oggettiva alleanza tra i populisti e una parte del giornalismo: insieme puntano sulla provocazione, sulle emozioni, sulle paure. E gli algoritmi privilegiano proprio tutto ciò che è provocatorio ed emotivo. X, ad esempio, si è trasformato in una macchina per distruggere la democrazia.
Recentemente Trump ha intentato una causa da 10 miliardi di dollari contro il «Wall Street Journal», per un articolo che lo accostava a una presunta lettera di auguri inviata nel 2003 a Jeffrey Epstein, contenente un disegno sessualmente allusivo. Cosa possono fare i media indipendenti americani quando vengono sistematicamente attaccati dal loro governo?
Resistere. E non temere – se necessario con il sostegno di ricche fondazioni – di ricorrere ai tribunali per difendere la libertà di espressione, sacra negli Stati Uniti, sancita dal Primo Emendamento della Costituzione.
I giornali usano i media per rendere virali i loro contenuti. Non è ora che i media si ritirino dai social media e smettano di dare gratuitamente le loro notizie?
Al contrario, il buon giornalismo deve mantenere una forte presenza sui social network: affinché ci sia un po’ più di informazione e un po’ meno disinformazione.
Lei scrive che «Klicks sind reaktionär», i clic sono reazionari. Per quale motivo?
Chi vuole – a tutti i costi – massimizzare il numero di clic gioca sempre il gioco dei reazionari: questo tipo di giornalismo vede scandali dove non ce ne sono; alimenta l’indignazione dove bisognerebbe mantenere la calma; vuole compiacere dove bisognerebbe mantenere le distanze. E i populisti se la ridono.
Tra gli eccessi del giornalismo contemporaneo, lei cita l’«Ich-Journalismus» (giornalismo egocentrico) e il «life coaching». In cosa consistono?
Viviamo nella «società delle singolarità», secondo l’espressione del sociologo Andreas Reckwitz. Ognuno vuole distinguersi dalla massa e i social network rafforzano il narcisismo, l’esibizionismo, l’egomania. Tutto ciò non manca di trasformare anche il giornalismo, che imita i social network. Gli articoli super soggettivi o egocentrici sono inflazionati, è un festival dell’«I, me and myself». È come se il giornalista fosse più importante dell’argomento di cui tratta…
E infatti, copiando i social network, il giornalismo copia anche quelle legioni di «influencer» che ci dicono come possiamo ottimizzare il nostro corpo, i nostri muscoli, la nostra pelle, il nostro viso, il nostro cibo, la nostra vita familiare, professionale o sportiva. Ci sono anche ragioni economiche alla base di questo giornalismo di «life coaching», perché è economico: si intervista rapidamente un esperto in modo poco critico e totalmente incompetente, e si ottiene già un articolo che probabilmente avrà successo.
Concludiamo con il titolo del suo libro. Che cos’è il «Trotzdem-Prinzip» e come può essere applicato dai professionisti dell’informazione?
Quando un giornalista conduce un’indagine, spesso incontra resistenze, ostacoli, insidie, ma continua, persevera. È il principio del «nonostante tutto». Ebbene, il giornalismo nel suo complesso deve rimanere fedele a questo principio e a se stesso: perseverare contro venti e maree, non rassegnarsi. Il giornalismo manterrà un certo peso solo se punterà sulla serietà e sulla critica sostanziale. Il giornalismo è un mestiere così bello, a condizione di voler andare a fondo delle cose.