Prima che si arrivi all’irreparabile!

by Claudia

Una ventina di arresti in relazione al derby tra Ambrì-Piotta e Lugano dello scorso 11 ottobre. Dapprima, un uomo di ventisette anni, reo di aver lanciato un petardo contro una troupe televisiva. Sua madre lo copre. Poi, una banda di giovani che prendono a pugni e calci due ragazzini e una ragazza nei pressi della stazione di Rivera. Una vera e propria spedizione punitiva. Voluta e cercata, nei confronti di tre persone che avevano una sola colpa da espiare: vestivano le insegne della squadra «nemica».

La prima ondata di arresti comprende sei maggiorenni e un solo minorenne. Nella seconda rete sono caduti altri dieci ultras bianconeri. Dai bollettini medici è emerso che le condizioni dei giovani aggrediti non sono mai state gravi. È una vera e propria fortuna. Quando colpisci con dei calci una persona stesa a terra non sai mai come può concludersi la vicenda. È una storia che deve far riflettere, prima che si giunga all’irreparabile, a causa della visceralità del tifo. Altrove è già capitato. Noi, in Ticino, finora siamo stati risparmiati. Per puro caso.

Questo episodio mi ha riportato alla mente quanto mi era capitato nell’aprile del 2021. Da pochi giorni, migliaia di appassionati dell’Ambrì-Piotta avevano celebrato con amore e nostalgia l’ultima sfida giocata sul ghiaccio della Valascia. Erano tempi di Covid, quindi si erano riuniti sul piazzale esterno, mentre dentro, i Biancoblù se la vedevano con il Gottéron. Per questa rubrica scrissi un articolo in cui tentavo di riassumere le emozioni che la gloriosa pista aveva dispensato sull’arco di sessantadue anni. Mi pareva doveroso. A prescindere della fede sportiva dei lettori e della mia.

Un tifoso dell’Hockey Club Lugano aveva inviato una mail alla direzione del settimanale, lamentandosi della mia scelta partigiana, scandalizzato che non avessi dedicato neppure una riga alla gloriosa Resega, dove i bianconeri avevano inanellato una serie di trionfi. Gli avevo risposto tentando di fargli capire che la festeggiata era la Valascia. Gli avevo pure garantito che, qualora fosse giunto l’ultimo atto per la pista sottocenerina, avrei fatto altrettanto. Non mi aveva creduto e aveva aggiunto che era ora di finirla con la favoletta del miracolo della squadra di paese che lotta contro i giganti cittadini, perché l’HCAP è un’azienda tanto quanto l’HCL. Mi dispiaceva chiuderla così, senza un minimo d’intesa. Dati i toni molto civili del dibattito decidemmo di incontrarci. Propose il ristorante della Resega. Ridendo gli dissi che sarei sceso con le guardie del corpo. Fu un incontro piacevolissimo, davanti a un paio di birre. Mettemmo presto da parte la questione del mio articolo. Lui convenne che, in fondo, ci poteva stare. Parlammo di hockey, di derby, tifoserie, slogan, episodi, di campioni di ieri e di oggi, di presidenti bravi, bravini, meno bravi. Rientrando a casa mi dicevo: ecco, la visceralità del tifo dovrebbe risolversi così. Davanti a un boccale. Serenamente. Arrabbiarsi, insultarsi, prendersi a botte non modifica di una virgola l’esito di una partita.

Purtroppo, ci sono frange estreme per le quali la maglia è un oggetto di fede e di culto. Un culto pagano che contempla anche una ritualità violenta spinta fino al sacrificio estremo. Questo non può e non deve accadere. Chi è coinvolto nel fenomeno sport, chi ama lo sport, deve intervenire. Non voglio spendere una sola riga sulle risorse umane e finanziarie investite nella prevenzione e nella sicurezza e che potrebbero essere utilizzate per fini più nobili. Mi preme piuttosto puntare il dito sul disagio sociale e mentale che spinge alcuni scalmanati a ricorrere alla violenza estrema. Dobbiamo interrogarci sul perché. Tutti: federazione, squadre, giocatori, media, la parte sana e non violenta della tifoseria. E soprattutto abbiamo tutti il dovere di cercare degli anticorpi.

Da più parti ho percepito la tentazione di fare ricorso alla repressione dura, all’insegna delle manganellate. Quella, forse, può servire nell’immediato, per spegnere sul nascere battaglie che potrebbero avere esiti preoccupanti. Ma sul lungo termine non sarebbe pagante. Meglio il dialogo costante e aperto. Perché non immaginare una serie di incontri regolari tra società, giocatori, media, e tifosi? Per ritrovare la perduta serenità. Per tornare a concepire lo sport come un gioco. Non come un pretesto per farsi la guerra. Ci saranno ancora derby. Facciamo in modo che siano una festa!

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