Il tempo delle alleanze è finito

by Claudia

La Nato, in crisi di identità, non riesce a trovare uno scopo mentre l’intesa opportunistica Russia-Cina potrebbe svanire da un momento all’altro. È l’ora del caos e non sappiamo quando potrà seguire un nuovo ordine

Il segno geopolitico dei tempi è il tramonto delle alleanze. C’erano una volta le grandi intese fra Stati raggruppati in blocchi, l’uno contrapposto all’altro. Caso di scuola la guerra fredda: Est contro Ovest, Patto di Varsavia contro Alleanza atlantica, regimi comunisti e liberaldemocrazie. Schema quasi cartesiano, ultimo erede del sistema degli Stati nazionali e/o dei relativi imperi lungo tutta la parabola dell’età moderna. Oggi l’Alleanza atlantica a guida americana è ancora formalmente in piedi, ma non ha molto a che vedere con il blocco occidentale fondato nel 1949 per contenere la minaccia sovietico-comunista. Quanto al resto, scomparso il Patto di Varsavia, restano vaghi allineamenti di opportunità, privi di vere strutture e senza un leader da tutti riconosciuto. Oppure sigle mediatiche variamente interpretabili, come il «Sud globale», i Brics o quant’altro. Benvenuti nel mondo delle relazioni transazionali, caso per caso e dossier per dossier. Ognuno per sé, nessuno per tutti.

Prendiamo due esempi eminenti: la Nato e l’intesa Russia-Cina. Nel primo caso, assistiamo all’involuzione di una poderosa alleanza militare, incarnazione dell’Occidente a egemonia statunitense, che soffre della crisi di tale egemonia. Nel secondo, le due grandi potenze che sfidano gli Stati Uniti sono in realtà avversari che per contingenze storiche si usano reciprocamente onde contare di più nella competizione con il «numero uno». A quasi quarant’anni dalla fine della guerra fredda, l’Alleanza atlantica con la Nato quale impalcatura militare è ancora alla ricerca di uno scopo. Dal punto di vista della superpotenza promotrice, questa organizzazione è sempre stata la cornice di un sistema di alleanze bilaterali costruito secondo il modulo perno/raggi (hub/spoke). Tutti i Paesi atlantici facevano affidamento sull’ombrello atomico americano quale estrema garanzia di sicurezza contro eventuali aggressioni. Questa assicurazione sulla vita è oggi messa in questione. Sicché il senso stesso della Nato si è perso: se non serve a chi vi partecipa per poter contare sulla protezione americana, a che cosa serve? E per conseguenza, perché Washington deve impegnarsi ancora in una organizzazione i cui soci, dal suo punto di vista, viaggiano a sbafo sul treno del «numero uno»? E che potrebbero spingerla in una guerra mondiale?

Ora che Trump si accinge a reinstallarsi alla Casa Bianca riscopriamo il problema di fondo del nucleo occidentale: la crisi della fiducia reciproca. Dovuta alla scarsa comunanza di interessi, una volta coperta dall’esistenziale pericolo rosso. Si obietterà che dalla fine del secolo scorso l’Alleanza continua a espandersi, vedi il recente reclutamento di Finlandia e Svezia. Vero. Ma la questione è che più si allarga la famiglia meno il capofamiglia può impegnarsi a tutelare tutti. Classico problema di sovraesposizione (overstretching). Il famoso articolo 5 del Trattato di Washington, peraltro assai interpretabile, che nella versione mediatizzata esprime il motto dei moschettieri – tutti per uno uno per tutti – non è più credibile. A meno di non pensare che Washington consideri alla stessa maniera Regno Unito e Macedonia del Nord, Germania e Montenegro, Italia e Slovenia. La guerra in Ucraina ha fatto esplodere la contraddizione fra allargamento e sicurezza. Più vasto ed eterogeneo lo spazio da difendere, meno efficace la deterrenza a stelle e strisce. Dunque la credibilità dell’Alleanza e del suo leader in crisi di identità.

Le prime vittime di tale paradosso sono proprio gli ucraini. I quali hanno combattuto e continuano a combattere, malgrado tutto, per essere ammessi sotto l’ombrello di un’organizzazione che promette di integrarli un giorno, senza dire quale. Mentre è sempre più evidente che gli stessi americani non considerano imminente questo matrimonio. Le offerte di qualche alternativa all’integrazione piena nella Nato, sotto forma di eventuali impegni di potenze disposte a garantire la permanenza in vita di Kiev contro future aggressioni russe, sempre che nel frattempo si raggiunga un duraturo cessate-il-fuoco, non possono avere la stessa cogenza della membership atlantica. Il clima domestico negli Stati Uniti, espresso nel motto trumpiano «America first», esprime il distacco del «numero uno» dagli impegni formalizzati nel Patto atlantico. La Nato potrà esistere ancora per decenni, ma nessun socio vi si sentirà garantito come prima.

Diverso il caso dell’allineamento russo-cinese, mai strutturato come alleanza organizzata e formalizzata. Putin vi si è adattato quando nel 2014 ha abbandonato il sogno di essere considerato dagli Usa come un partner autonomo ma paritario. Persa Kiev, non restava che cercare soccorso a Pechino. Dopo qualche esitazione, Xi Jinping ha stabilito che tutto sommato conviene legarsi provvisoriamente ai russi per due motivi essenziali: far fronte comune contro l’egemonia americana e penetrare intanto nella sfera di influenza di Mosca, specie nell’Asia centrale post-sovietica e nella Siberia quasi disabitata e ricchissima di risorse. Russi e cinesi restano però alquanto diffidenti gli uni verso gli altri. L’America li ha spinti a unirsi, l’America potrebbe dividerli nel momento in cui scegliesse di optare per una tregua tattica con il partner russo – ma solo dopo un compromesso sull’Ucraina – nel frattempo dissanguato nell’«operazione militare speciale». In ogni caso, possiamo dimenticare per il tempo visibile le eleganti semplificazioni del mondo spartito in blocchi. È l’ora del caos, cui non sappiamo quando potrà seguire un nuovo ordine, eventualmente basato su nuove alleanze fra grandi potenze ciascuna dotata di propria sfera di influenza reciprocamente riconosciuta. L’importante intanto è non finire dentro una guerra mondiale che renderebbe tragicamente accademico il nostro ragionamento.

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