Le sofferenze dei palestinesi di Gerusalemme est, trattati dalle autorità israeliane come se fossero immigrati nella loro città natale, dove le loro famiglie risiedono da generazioni. E la necessità di opporsi alle politiche di oppressione
Dopo 14 mesi di scontri ininterrotti tra Israele e Hezbollah, lo scorso mercoledì è entrata in vigore una tregua di 60 giorni (sempre che non venga sistematicamente violata) frutto di un accordo siglato da Netanyanu con i leader libanesi, ma le rispettive popolazioni sono scettiche e molti degli sfollati a nord di Israele non si percepiscono sicuri e non si fidano a far ritorno nelle proprie case. La sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti delle istituzioni israeliane rimane elevata anche a fronte delle vicende giuridiche che coinvolgono il primo ministro: dai mandati d’arresto della Corte penale internazionale, alla questione della fuga di documenti riservati, passando per l’ennesima richiesta di rinvio della testimonianza al processo di corruzione a suo carico. Se dunque le sirene hanno smesso almeno temporaneamente di suonare, le manifestazioni, le marce e i sit-in silenziosi davanti alla Knesset proseguono a oltranza anche nei giorni feriali soprattutto a sostegno delle famiglie degli ostaggi. A Gaza, infatti, la tregua auspicate da Biden sembra ancora lontana e la distruzione procede senza sosta insieme alla riforma giudiziaria promossa dal Governo che galoppa in direzione del regime autoritario. Per il secondo anno consecutivo le festività di Natale si svolgeranno sotto tono, soprattutto a Gerusalemme, dove la popolazione palestinese continua ad essere presa di mira dalle politiche dell’occupazione israeliana e dai coloni legittimati da questo Governo come mai prima d’ora.
A introdurci nelle intricate vicende di Gerusalemme est è Ir Amim, un’organizzazione no-profit israeliana che dal 2000 si occupa di monitorare le demolizioni di case e difendere i diritti dei palestinesi, sensibilizzando l’opinione pubblica sui complessi risvolti politici, giuridici, economici e sociali dell’occupazione nella provincia di Gerusalemme. L’associazione opera a fianco della comunità palestinese sostenendola per promuovere le condizioni per un futuro più stabile nella città che, detenendo uno stato simbolico per due popoli e tre religioni, riveste un ruolo decisivo anche nel raggiungimento di una soluzione diplomatica.
Alla fine della Guerra d’indipendenza israeliana, Gerusalemme fu divisa in due: la parte occidentale della città fu occupata e annessa da Israele, mentre la parte orientale, la città vecchia di Gerusalemme e i suoi quartieri circostanti, fu occupata e annessa alla Giordania. Nel 1967, durante la Guerra dei sei giorni, Israele conquistò anche la parte orientale della città insieme al resto della Cisgiordania, nonché Gaza e le alture del Golan, annettendo la Gerusalemme giordana e 28 villaggi circostanti la municipalità, che oggi costituiscono l’area nota come Gerusalemme est. Tale annessione fu sancita legalmente da Israele nel 1980 attraverso la Legge fondamentale che definisce l’intera città di Gerusalemme capitale «completa e unita» dello Stato ebraico. Il provvedimento non è tuttavia stato riconosciuto dalla maggioranza della comunità internazionale che continua a considerare Gerusalemme est un territorio occupato illegalmente. Come parte dell’annessione, ai palestinesi di Gerusalemme est fu concesso collettivamente lo status di «residenti permanenti» che attribuisce loro diritti civili e sociali, come la copertura previdenziale, senza tuttavia i diritti politici completi di una cittadinanza. I residenti possono votare alle elezioni comunali ed essere eletti nel Consiglio comunale, mentre non possono essere eletti alla carica di sindaco, né candidarsi o votare alle elezioni nazionali della Knesset, dove tuttavia viene presa la maggior parte delle decisioni che li riguardano.
In sostanza, i palestinesi di Gerusalemme vengono trattati come se fossero immigrati nella loro città natale, dove le loro famiglie risiedono da generazioni, e possono richiedere la cittadinanza israeliana solo su base individuale con poco successo. Dal 1967, inoltre, Israele conduce a Gerusalemme est una politica di espropriazione della terra di proprietà palestinese a favore degli insediamenti ebraici e delle aree verdi, che la maggior parte degli israeliani vedono come quartieri normali, simili a quelli della parte ovest della città. Tale politica ha separato i quartieri palestinesi gli uni dagli altri e diviso Gerusalemme est dal resto della Cisgiordania. Agli inizi degli anni 2000, inoltre, è stato eretto un muro di separazione che si snoda tagliando fuori la città da Ramallah e dal resto della Cisgiordania, e lasciando alcuni quartieri di Gerusalemme dall’altra parte del muro. La recinzione sortisce un profondo effetto sulla vita culturale, economica e sociale dei palestinesi, in particolare di quelli che risiedono in quartieri come Kfar Aqab e il campo profughi di Shoafat, costretti a passare attraverso il checkpoint per raggiungere il resto della città, e i cui bisogni sono quasi completamente trascurati dalle autorità israeliane, che forniscono pochissimi servizi nella zona anche quando si tratta di risorse essenziali come le infrastrutture idriche. Il tasso di povertà è particolarmente elevato.
Tale combinazione di meccanismi legali, diritti di cittadinanza, espansione degli insediamenti, acquisizione di proprietà, stanziamenti di bilancio e politiche di pianificazione urbana che favoriscono i residenti ebrei israeliani e gli interessi geopolitici, volta a limitare sistematicamente i diritti della popolazione palestinese e le sue rivendicazioni di crescita, sviluppo e sovranità, ha subito un tragico incremento dalla salita al potere dell’ultimo Governo Netanyahu nel gennaio 2023 e un’ulteriore accelerazione dal 7 ottobre in avanti. Un’inchiesta recentemente condotta dal programma Hamakor per il Canale 13 ha messo in luce come i residenti palestinesi di Gerusalemme est siano bersaglio dei capricci del ministro Ben Gvir e dei suoi più stretti consiglieri ogni volta che hanno bisogno di manipolare Netanyahu per ottenere concessioni politiche o di creare eccitazione tra le file dei loro seguaci. Che si tratti di sfidare il già precario status quo del Monte del Tempio, demolire abitazioni cosiddette «abusive» o commettere violente incursioni notturne nei quartieri palestinesi con la complicità delle forze dell’ordine; dal loro gruppo Whatsapp è emerso come tutto si traduce in mere azioni di punizione collettiva, violazioni dei diritti fondamentali degli abitanti della zona est della città che non contribuiscono in alcun modo alla sicurezza degli israeliani, anzi inaspriscono le tensioni e le rappresaglie.
La legge israeliana inoltre permette ai cittadini ebrei di reclamare vecchie proprietà ebraiche, mentre non esiste un diritto equivalente per centinaia di migliaia di palestinesi che fuggirono o furono costretti ad abbandonare le loro case nel 1948 quando gran parte delle proprietà arabe furono confiscate, anche a Gerusalemme ovest, e messe sotto la custodia dello Stato con una legge ad hoc. In questo senso tutti ricorderanno la massiccia mobilitazione in aiuto alle famiglie palestinesi minacciate di espulsione e sfratto dal quartiere di Sheikh Jarrah che nel 2021 diede vita a settimane di raduni e manifestazioni popolari a Gerusalemme est, nelle città miste in Israele e in Cisgiordania. I tribunali si sono schierati apertamente anche in favore dei coloni ebrei che cercano di prendere possesso di Silwan, un altro quartiere palestinese a ridosso delle mura della città vecchia. Esperti e attivisti sostengono che il forte aumento delle demolizioni indica che il comune di Gerusalemme sta sfruttando l’attenzione globale su Gaza per cercare di sradicare altri palestinesi da Gerusalemme est. L’unica nota davvero positiva è che gli attivismi congiunti di palestinesi ed ebrei attorno alle vicende di Silwan e Sheikh Jarrah rappresentano due casi riusciti di «coresistenza» che hanno prodotto il risultato di limitare sfratti e demolizioni. Nella «coresistenza» dunque sono contenuti i semi della speranza per il futuro: sosteniamola.