Proteggere la Terra dalle minacce celesti

by Claudia

La missione Hera dell’Agenzia spaziale europea verso l’asteroide Didymos mira ad evitare impatti fatali col nostro pianeta

Proprio dieci anni fa, nel novembre 2014, una sonda dell’Agenzia spaziale europea (ESA), chiamata Rosetta, dopo aver raggiunto una cometa faceva scendere sulla piccola superficie del suo nucleo una sonda secondaria, denominata Philae, per analizzarne la composizione del suolo. Rosetta e Philae sono due nomi che rievocano l’antico Egitto e la prima decifrazione dei geroglifici che permise la traduzione dell’antica lingua. La missione Rosetta fu un successo storico, che dimostrò tra l’altro anche la grande capacità tecnica di chi opera in campo astronautico. La cometa, raggiunta da Rosetta dopo un viaggio durato 10 anni, è la Churyumov-Gerasimenko, che orbita attorno al Sole con un periodo di 6,45 anni terrestri. Il suo nucleo misura circa 3 chilometri. All’inizio dello scorso ottobre è partita dalla Terra una nuova missione, Hera, che punta verso un altro corpo celeste lontano, un asteroide. Hera, nella mitologia greca alla quale ci si riferisce spesso nelle missioni spaziali, è una delle maggiori divinità dell’Olimpo, simbolo tra l’altro della Terra che si unisce al cielo in un connubio che origina la vita.  Il veicolo spaziale Hera, delle dimensioni di un’automobile, sta andando a un incontro ravvicinato con l’asteroide Didymos, piccolissimo corpo celeste che, insieme a più di un milione di oggetti simili a esso, orbita attorno al Sole fin dalle prime fasi di formazione dei pianeti e delle comete. Gli asteroidi sono forse il frutto di un pianeta mancato che avrebbe dovuto formarsi tra Marte e Giove. Proprio per questo la loro conoscenza può anche fornirci preziose informazioni sulla genesi del nostro Sistema solare.

Didymos è un asteroide binario, cioè a doppio corpo, che orbita insieme a un corpo più piccolo che si chiama Dimorphos (che tra l’altro in greco vuol dire a doppia forma). L’attenzione principale di Hera sarà proprio per il più piccolo dei due perché, nel settembre 2022, la sua orbita fu modificata artificialmente dalla missione americana DART. Allora si fece schiantare intenzionalmente e a grande velocità (circa 6,1 km/s) la navicella DART (pesante mezza tonnellata) contro Dimorphos, che ha solo 60 metri di diametro, allo scopo di defletterlo e modificarne l’orbita. Fu solo un test, l’asteroide non costituiva un pericolo per la Terra. In base alle osservazioni fatte con i telescopi terrestri e spaziali DART ha effettivamente alterato l’orbita dell’asteroide e ridotto il suo periodo orbitale attorno a Didymos di 32 minuti (più o meno un minuto, ed è per questo che qualche pubblicazione parla di 33 minuti), quasi il 5% del suo tempo originale. Ha deformato il corpo dell’asteroide creando un cratere da impatto. In più l’urto ha lanciato anche un pennacchio di detriti a migliaia di chilometri nello spazio. Tra i gruppi di scienziati che hanno studiato quella collisione spaziale, cercando di riconoscerne gli effetti, spicca per noi l’Università di Berna, in particolare con i dottori Sabina Raducan e Martin Jutzi, del Dipartimento di ricerche spaziali e planetologia dell’Istituto di fisica. I ricercatori bernesi hanno inserito una grande quantità di dati conosciuti relativi a DART, all’asteroide binario e all’urto avvenuto, dentro un programma di simulazione di collisioni di asteroidi, di comete o di pianeti, sviluppato da oltre venti anni all’Università di Berna.

I risultati sono stati pubblicati lo scorso anno. L’asteroide apparirebbe come un «ammasso di detriti» tenuto insieme da una debole gravità. L’équipe ha stimato che l’1% della massa totale di Dimorphos sia stata proiettata nello spazio dall’impatto con DART, proprio in virtù della ridotta gravità. Inoltre risulterebbe che circa l’8% della massa dell’asteroide sia stata rimossa attorno al suo corpo. Il cratere formato dall’impatto, diversamente da quello che succede sulla Terra, secondo la simulazione si sarebbe ulteriormente allargato dopo l’evento. Date queste premesse l’obiettivo della missione Hera è proprio quello di andare a verificare da vicino le conseguenze fisiche avute dall’asteroide nello scontro con DART, vedere la dimensione e forma del cratere creato dall’urto, la composizione del terreno e altre evidenze. Non da ultimo verificare se le osservazioni effettuate da Terra sono corrette. Del gruppo di lavoro Hera Impact Physics fanno parte anche gli svizzeri Raducan e Jutzi appena ricordati. Il loro programma di simulazione converte i corpi in collisione in milioni di particelle il cui comportamento al momento dell’impatto viene determinato dall’interazione delle diverse variabili riconfigurabili. Il metodo è stato convalidato da diverse esperienze di laboratorio e utilizzato con successo nel 2019, quando riprodusse lo scontro provocato da un proiettile di rame lanciato dalla sonda spaziale giapponese Hayabusa 2 contro l’asteroide Ryugu.

Come la missione DART, anche la missione Hera è stata sviluppata nell’ambito di un programma di sicurezza spaziale che mira a proteggere la Terra, la specie umana e le infrastrutture terrestri dalle minacce provenienti dallo spazio. Affinando la comprensione scientifica della tecnica di deflessione degli asteroidi tramite l’impatto cinetico si possiederà una nuova arma per rendere la Terra più sicura. Se un domani un corpo celeste si presentasse in rotta di collisione con la Terra, noi sapremmo come operare per fronteggiare efficacemente il pericolo. Dimorphos al momento dell’impatto con DART si trovava a 11 milioni di km dalla Terra; Hera ci metterà due anni per raggiungerlo. L’arrivo è previsto per l’autunno del 2026. «La difesa planetaria è intrinsecamente un’impresa internazionale», ha dichiarato il direttore generale dell’ESA Josef Aschbacher. La missione DART era americana, la missione Hera è europea in collaborazione col Giappone. Oltre al suo lavoro di osservazione, Hera condurrà anche esperimenti tecnologici, come il dispiegamento di due satellitini Cubesat. Sono della dimensione di una scatola di scarpe, voleranno più vicini all’asteroide rispetto alla sonda madre Hera, che è un cubo di 1,6 metri di lato, con due ali di pannelli solari di 5 metri, e l’aiuteranno nella raccolta dei dati utili alla navigazione e all’osservazione scientifica. Ci sarà presto un seguito a questa impresa. Il 13 aprile 2029 un altro asteroide, Apophis, un corpo di forma irregolare largo circa 375 metri, passerà a meno di 32’000 km dalla Terra. L’avvicinamento più grande mai segnalato per un asteroide di questo tipo.

Non costituisce un pericolo per noi: la sua traiettoria non punta verso la Terra, ma ci offre un’occasione imperdibile per studiarlo ed estrapolare informazioni generali sul movimento degli asteroidi. Tutto ciò a detta degli esperti internazionali del Programma di sicurezza spaziale, in vista di ipotetici, anche se per ora improbabili, incroci pericolosi tra la Terra e i corpi celesti. La missione per studiarlo si sta già preparando: si chiama RAMSES (acronimo che sta per «Rapida missione Apophis per la sicurezza spaziale»). L’ESA la proporrà ai suoi Stati membri, per approvazione e finanziamento, nel prossimo Consiglio ministeriale del 2025. Il tempo stringe perché per arrivare all’appuntamento con l’asteroide Apophis sarebbe necessario lanciare RAMSES all’inizio del 2028.

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