Partendo dalle riflessioni degli antichi filosofi greci e risalendo fino alla contemporaneità, lo studioso svizzero Nidesh Lawtoo ha pubblicato due volumi per capire se la visione di questo tipo di intrattenimenti generi imitazione o catarsi
«Fingere» la violenza, rappresentarla per esempio nel mondo virtuale dei film o dei videogiochi senza metterla in atto nella realtà, può scatenare effetti violenti in chi vi assiste? Oppure la sua rappresentazione ha un effetto catartico? Lo svizzero Nidesh Lawtoo, filosofo e professore ordinario di letteratura e cultura moderna all’Università di Leida, in Olanda, quest’anno ha pubblicato per Mimesis edizioni i due saggi Violenza e catarsi. L’inconscio edipico. volume 1 e Violenza e contagio. L’inconscio mimetico, volume 2. Di cosa si tratta? L’abbiamo intervistato.
Prof. Lawtoo, come nascono questi libri?
L’idea è nata negli Stati Uniti, dove vivevo all’epoca e dove la violenza, anche le uccisioni di massa, succedono spesso. Un giorno accompagno mio figlio di quattro anni a scuola ma la scuola è chiusa. Torno a casa e riceviamo alcune e-mail rendendoci conto che un bambino di quattro anni, nella classe parallela di mio figlio, è stato ucciso: aveva trovato un’arma da fuoco carica a casa e probabilmente se l’era puntata addosso. Partito il colpo, è morto.
Uno shock.
Sì. E ho riflettuto sui cartoni animati dove si vedono personaggi tipo Bugs Bunny che si puntano una pistola al corpo. Si sparano alla testa ma l’effetto è divertente. Ho scoperto che c’è un dibattito accademico su questo. Se un bimbo trova un’arma carica in casa non ha necessariamente la capacità di distinguere tra finzione e realtà. Se ha visto il gesto in televisione e l’ha fatto ridere, il rischio di ripeterlo è reale.
Dai cartoni animati è passato ai film e ai videogiochi.
Esatto. Mi sono ristretto al tema, già molto largo, degli effetti della violenza mediatica sugli spettatori. Nel secolo scorso il dibattito concerneva soprattutto i film ed ora si è spostato verso i videogiochi.
Un tema è cruciale pensando ai ragazzi.
Anche per gli adulti. Viviamo in un’epoca digitale e i media si ramificano su Internet. Siamo tutti vulnerabili alle rappresentazioni di violenza. I videogiochi aggiungono una dimensione partecipativa: si preme il grilletto. Ciò accentua l’identificazione con l’aggressore, un fenomeno che lego al concetto antico di mimesi visto che siamo esseri imitativi o mimetici.
Dobbiamo temere le conseguenze della rappresentazione mediatica della violenza?
Già all’inizio della filosofia Platone e Aristotele ne discutevano. Ci sono due ipotesi: si possono avere effetti contagiosi, affettivi, quasi patologici, come sosteneva Platone. Oppure uno spettacolo tragico può generare ciò che Aristotele chiamava la «catarsi», un termine che si traduce spesso sbrigativamente con «purificazione» o «purgazione». Si parla spesso di contagio e catarsi senza sapere da dove vengono questi concetti. Sono molto difficili da tradurre in un linguaggio contemporaneo, ma le neuroscienze ci aiutano a capire come funziona il contagio mimetico.
Alla fine di queste ricerche lei cosa dice?
Il dibattito resta complesso, le ipotesi sono legate a due visioni diverse dell’inconscio. Una è legata al «metodo catartico» che Sigmund Freud sviluppò più di un secolo fa: cioè l’idea che la catarsi è da capire in modo terapeutico, come una valvola di sfogo di affetti violenti. Freud riprende un’interpretazione medica sviluppata da uno zio di sua moglie, Jakob Bernays, specialista di Aristotele. Poi la sostiene tramite la sua lettura del caso di Edipo Re, che discuteva già Aristotele. Edipo viene cacciato dalla città di Tebe, visto che si rende conto di avere ucciso suo padre e sposato sua madre. L’identificazione dello spettatore con il personaggio tragico genera, secondo Freud, una purificazione, uno sfogo delle emozioni patologiche o «edipiche».
Condivide questa visione?
Studiare la storia di questa ipotesi medica mi ha lasciato dubbioso. La maggior parte dei filologi contemporanei pensa che la catarsi per Aristotele non avesse nessuna connotazione medica. Gli spettatori di tragedie come Edipo re non avevano «complessi» e non erano malati. La catarsi aveva probabilmente qualcosa a che vedere con un’emozione di tipo estetico.
Un approccio non terapeutico, ma legato al gusto estetico, diciamo.
Esatto. Per Aristotele la tragedia deve essere costruita in un modo tale che l’eroe parta da una posizione di superiorità. E poi, attraverso un cambiamento di sorte, viene – nel caso di Edipo – espulso dalla città. C’è un ribaltamento del protagonista che nella struttura del mito e del racconto genera l’effetto di catarsi della pietà e della paura. Ci identifichiamo nel personaggio, ci emozioniamo per il suo tragico destino perché noi, spettatori, non soffriamo veramente, abbiamo una sensazione (estetica viene da aisthēsi, sensazione) paradossalmente piacevole. Nell’ipotesi del contagio, il meccanismo è più chiaro e sembra dar ragione a Platone. Per le neuroscienze la semplice osservazione di espressioni facciali e di gesti altrui attiva nel cervello gli stessi meccanismi. Nel caso di un’espressione facciale violenta, a livello neuronale, si attivano gli stessi meccanismi violenti, che possono pure essere piacevoli.
Vedi la violenza e scatta pari pari la violenza?
Il fatto che i neuroni specchio si attivino non significa che rispondiamo automaticamente alla rappresentazione di violenza con un gesto violento. Non si può stabilire causalità diretta. Gli studiosi hanno notato una correlazione tra i bambini che guardano o giocano videogiochi violenti e hanno comportamenti violenti. Ma una correlazione non è la stessa cosa di una causazione. Correlation is not causation. Ci sono tanti altri fattori in gioco, l’educazione in primis, e poi la facilità o difficoltà nel procurarsi delle armi che è il problema principale negli Usa. Ma il fatto che si è stabilito una correlazione tra vedere delle immagini violente, giocare dei giochi violenti e i comportamenti violenti, è già preoccupante.
In un momento storico intriso di violenza come quello che stiamo vivendo, anche la semplice comunicazione nei Tg può spingerci ad atteggiamenti più violenti?
Effettivamente la violenza è molto presente nei media e nel mondo. Il fatto che sia molto presente nelle rappresentazioni può incitare a un comportamento violento. Viene normalizzata. Per questo occorre la contestualizzazione delle ragioni che portano alla guerra. Un buon Tg, approfondimento, o l’educazione stessa, forniscono strumenti per sviluppare uno sguardo critico. Purtroppo le immagini circolano in modo velocissimo sui social senza contesto, tramite algoritmi che conoscono le nostre preferenze.
Più favole a lieto fine che Iliade e Odissea, potremmo dire?
Per Platone sì, ma ai miei figli ho letto pure versioni illustrate dell’Odissea, che adorano! I problemi oggi sono passati su altri media che Platone neppure sognava. Devo però dire che ai suoi tempi l’Iliade non veniva solo raccontata ma rappresentata a teatro, messa in scena davanti a folle che arrivavano a 20’000 persone. Il mito della caverna illustra il potere di questi spettacoli di incatenare gli spettatori. I media cambiano, ma il problema rimane ambivalente a dipendenza dei contenuti. Visto che la correlazione ancora una volta non è causazione, non è che se noi guardiamo solo dei film con comportamenti empatici e gentili sviluppiamo un comportamento necessariamente gentile. Ma se la mia ipotesi è corretta, un’influenza c’è.
È un fatto che l’industria cinematografica e quella dei videogiochi puntano di più sulla violenza.
La violenza vende. Nell’Illuminismo abbiamo sviluppato quest’idea di Homo sapiens, di Homo razionale, ma se ci guardiamo nello specchio io vedo spesso l’Homo mimeticus. Le industrie della cinematografia e dei videogiochi capitalizzano sul fatto che siamo attratti da spettacoli violenti, forse proprio perché sono «solo» rappresentazioni. Il videogame ci permette di avvicinarci al male, all’eccitazione della violenza. Rimanendo però a distanza di sicurezza.