Uno sguardo all’ultimo capolavoro di Nick Cave, attualmente impegnato in una tournée attraverso l’Europa
Sebbene sia naturale, per l’essere umano, temere il dolore – e, soprattutto, quella forma particolarmente lacerante di dolore che deriva dall’incontro con la morte – non si può negare come gli equilibri di una mente molto sensibile possano essere non solo influenzati, ma del tutto alterati e sbilanciati dall’esperienza di una sofferenza emotiva acuta; il che, nel caso di un artista, conduce inevitabilmente a tentare di sublimare tale dolore attraverso il proprio istinto creativo, ricercando una qualche forma di catarsi nell’arte.
Ciononostante, si può dire che ben pochi artisti siano riusciti a far brillare quella che W. B. Yeats chiamava «una terribile bellezza» con il medesimo, abbagliante fulgore di cui il cantautore australiano Nick Cave è stato capace da otto anni a questa parte – da quando, cioè, convive con un innominato ma onnipresente fantasma, che da dietro le quinte regge su di sé l’intera impalcatura degli ultimi quattro album: lo spirito di Arthur, figlio quindicenne del cantante, scomparso nel 2015 per un tragico incidente. Una disgrazia alla quale ha fatto seguito, nel 2022, un’altra morte improvvisa: quella di Jethro Lazenby, primogenito di Nick, morto a soli 31 anni dopo una lunga serie di problemi psichici.
Ecco quindi che Cave, da artista impavido e intimista qual è sempre stato, ha trovato in sé la forza di sopravvivere a tali catastrofi tramite un coraggioso processo di confronto con il dolore, che lo ha visto ammantare la sua musica di una profonda coltre metafisica, dapprima in Skeleton Tree (2016), e poi in Ghosteen (2019) – quest’ultimo un dolente, eppure luminoso affresco del mondo interiore di un uomo impegnato a restituire un senso al proprio sé nel tentativo d’innalzarsi sopra il rimpianto.
Oggi, il nuovo Wild God, ancora una volta inciso con la fedele band dei Bad Seeds, sembra costituire il capitolo conclusivo di questo lungo «viaggio al termine del lutto»; infatti, laddove Ghosteen ci aveva presentato suggestioni oniriche e ammantate di una sacralità quasi rituale, Wild God rappresenta un parziale ritorno al Cave più caustico e inquieto degli anni duemila, qui alle prese con una serie di brani a cavallo tra disillusi inni urbani (a base di sonorità elettroniche, cadenzate dal ritmo spietato della drum machine), e ariose orchestrazioni con tanto di sezioni d’archi e cori quasi mistici, in una combinazione estremamente evocativa e coinvolgente.
La particolare atmosfera che pervade quest’album è, del resto, evidente fin dalla traccia di apertura, la sognante Song of the Lake, in cui Cave rispolvera in maniera magistrale quello stile di recitativo da sempre a lui caro, e che in questo disco si fa particolarmente presente; allo stesso tempo, l’artista s’imbarca in un gioco di autocitazioni che, lungo tutto il CD, riprende molteplici linee melodiche di brani del passato, arricchendo le liriche di riferimenti a lavori precedenti; tanto che il fan più smaliziato non avrà problemi a orientarsi in questa magistrale serie di scatole cinesi (si vedano gli arguti riferimenti all’album Push the Sky Away, risalente al 2013, presenti nella title-track).
Non solo: basta prestare attenzione ai testi per rendersi conto di come la costante presenza del divino faccia di Wild God quasi un concept album già a partire dal suo titolo, Dio selvaggio. E se ogni brano del disco cita esplicitamente i poteri superiori, Nick sembra qui combattuto tra l’idea di una divinità pagana, a tratti imprevedibile e vendicativa (come nella già citata title-track e nell’ipnotico lento Conversion), e l’entità di matrice cristiana, benevola e compassionevole, che appare invece nei toccanti ma surreali Long Dark Night e Frogs – e, soprattutto, nell’ossessiva ballata Joy: quasi una versione moderna dell’apparizione dei fantasmi natalizi nel celeberrimo Christmas Carol di Dickens, in cui il linguaggio vagamente d’altri tempi incornicia l’ennesimo incontro straziante con il grande assente, ovvero il giovane Arthur («un fantasma in enormi scarpe da ginnastica, stelle ridenti attorno alla testa (…). / Si sedette sul mio letto, questo ragazzo fiammeggiante / e disse: abbiamo tutti provato troppo dolore, ora è il momento della gioia»).
Questo sentimento d’incredula rinascita rivive in pezzi strazianti, eppure intrisi di speranza, quali l’epico Final Rescue Attempt («e io ti amerò per sempre»), e O Wow O Wow (How Wonderful She Is), per poi raggiungere la massima apoteosi nel trionfante brano conclusivo del CD, As The Waters Cover the Sea – a tutti gli effetti un pezzo gospel vibrante e ottimista, che sembra offrire a Cave una sorta di cesura con il passato, quasi un anelito a un possibile futuro.
E in effetti, Wild God appare come una confessione: laddove Skeleton Tree, Ghosteen e il più recente Carnage (firmato in coppia con Warren Ellis nel 2021) offrivano un’istantanea dei moti interiori di Cave, accompagnandolo lungo le varie fasi del lutto e della sua elaborazione, quest’opera propone un autore dotato di una nuova consapevolezza, impegnato a riconquistare quel senso di appartenenza al mondo che, in fondo, non lo aveva mai del tutto abbandonato – e con il quale si è ripetutamente confrontato nella fase più recente della sua carriera.
In un certo senso, oggi Wild God rende la metamorfosi completa: sebbene Cave non possa mai più tornare a essere quello di un tempo, poiché il passato lo ha per sempre segnato e consumato, la sua anima ha infine accolto dentro di sé un dolore così grande da poterla potenzialmente annientare. E se queste dieci tracce rappresentano ben più del ritratto di un sofferto percorso di personale emancipazione dalla crudeltà del dolore, come ascoltatori noi non possiamo che essere grati a Nick Cave per essere riuscito, ancora una volta, a dar voce a quanto, per la maggior parte dei comuni mortali, può definirsi quasi indicibile – e a nobilitarlo tramite la propria poetica; il che, in fondo, costituisce la misura più autentica di un vero, grande artista.