Il secondo attentato alla vita di Donald Trump e la violenza fomentata sia dalla destra sia dalla sinistra radicali
Quando Elon Musk ha osservato che nessuno finora ha attentato alla vita di Joe Biden o di Kamala Harris, in un post su X poi da lui cancellato, la sua posizione era equivoca e pericolosa: sembrava quasi invocare un «equilibrio del terrore», con attentati a danno di ambedue i candidati. Donde la clamorosa retromarcia. Però la versione cancellata del suo post su X alludeva all’accusa che in America esiste un clima di odio non solo nella destra radicale che vedemmo in azione al Campidoglio il 6 gennaio 2021; c’è anche tanto odio fomentato a sinistra contro Trump. Quel clima può arrivare a legittimarne l’eliminazione fisica. Basta navigare nel profluvio di commenti online successivi sia al primo sia al secondo attentato. Una miriade di queste reazioni appartengono alla categoria del «se l’è cercato lui», insomma tanto peggio per Trump, essendo un personaggio che usa una retorica incendiaria e talvolta simpatizza con la violenza. Ergo: gli attentati sono un giusto castigo per questo avversario politico? Allora bisogna sperare che il prossimo cecchino abbia la mira giusta? Un’altra categoria di reazioni appartiene alla famiglia del complottismo di sinistra: è la teoria secondo cui gli attentati sono sceneggiate, sono finti, se li organizza lui per aumentare la propria popolarità.
Il retroterra è quello di un’America lacerata in tribù contrapposte, dove la predicazione dell’odio e della violenza «giusta» non è il monopolio di una parte sola. L’idea che Trump sia un aspirante dittatore, e quindi ogni mezzo sia lecito per eliminarlo, non appartiene solo a frange di ultrà come gli estremisti di Antifa; in realtà aleggia in modo implicito nei discorsi ovattati di una certa sinistra accademica, mediatica, hollywoodiana. Se lui è il male supremo, se una sua vittoria sarebbe l’inizio della fine della democrazia americana, chi lo uccide è un assassino o un salvatore della patria? Questo è il brodo di coltura a cui allude Musk quando osserva che gli attentati avvengono da una parte sola.
Altri fattori completano il quadro di una sinistra radicale che può essere illiberale e autoritaria, tanto quanto il mostro contro cui si batte. L’ex democratico Robert Kennedy Jr denunciò la censura del proprio partito quando tentava di opporsi a Biden (all’epoca sostenuto dall’establishment nella sua ostinazione a ricandidarsi). Una volta uscito dal partito per correre come indipendente, lo stesso Kennedy denunciò la guerriglia legale dei democratici per escludere il suo nome dalle schede elettorali. Kennedy ha finito per appoggiare Trump, ma non era inevitabile. Robert Junior viene da una storia di ambientalismo radicale che lo ha portato su posizioni estreme, antiscientifiche, per esempio con la campagna anti-vax; però la sua deriva a destra è stata favorita dalla sensazione di essere censurato da un establishment progressista che oggi governa il Grande Fratello americano (vedi, fra i tanti esempi, la censura woke nelle università). Un altro segnale dell’esistenza di una sinistra illiberale è la censura operata da Facebook contro le opinioni di destra, e ammessa pubblicamente da Mark Zuckerberg: se la sinistra vuole esasperare la paranoia della destra, sta facendo del suo meglio per dimostrare che la persecuzione è reale.
La verità scomoda è anche un’altra. Dall’Fbi all’intelligence, fino al Dipartimento di Giustizia, la violenza di destra è oggetto di vigilanza, prevenzione, repressione. Giustamente. Dal 6 gennaio 2021 non si può sottovalutare il potenziale eversivo e criminale che cova nelle milizie filo-naziste, nei suprematisti bianchi, nei nostalgici del Ku Klux Klan. Su quel mondo la macchina poliziesca e giudiziaria esercita la sua pressione. Ma sta vigilando anche sulla galassia dei potenziali attentatori alla vita di Trump? Oppure vede pericoli da una parte sola? La storia americana insegna che l’Fbi è una polizia potente ma politicizzata: lo fu dalla sua nascita ai tempi di Edgar Hoover, lo rimane oggi. Il sospetto è che la Casa Bianca abbia dichiarato guerra alla violenza politica solo quando è di destra. Già per l’attentato di due mesi fa la capa del Secret Service ha dovuto dimettersi, perché le colpe e manchevolezze erano scandalose. Quanti altri attentati potranno accadere da qui al 5 novembre? In quanti penseranno che le forze dell’ordine li abbiano «lasciati» accadere? E quanti reagiranno di nuovo sostenendo che Trump se li è cercati? È un gioco pericoloso.
Un soggiorno in Europa mi mette a contatto con la «vostra» incredulità sull’elezione americana. Girando il Vecchio continente mi sento ripetere le stesse domande. Com’è possibile che esista ancora un margine di incertezza sul risultato del 5 novembre? Come possono esserci dubbi su chi sia più adatto a governare, tra Harris e Trump? Il dibattito televisivo del 10 settembre, in cui lui partì per la tangente con le fake news sugli immigrati che mangiano cani e gatti, diventando lo zimbello dei meme, non dovrebbe aver risolto la questione una volta per tutte? E vada per i faziosi, gli ideologizzati, ma come possono esistere ancora degli «indecisi» a questo punto? L’incredulità europea riecheggia peraltro quella delle élite costiere americane, i laureati progressisti che leggono il «New York Times» e guardano la «Cnn», anch’essi sbalorditi e indignati che i sondaggi possano ancora dare una situazione di semi-parità, con un vantaggio ad Harris troppo esiguo per garantire la sua elezione.
Per rispondere prendo a prestito gli argomenti usati da una voce «terza», abbastanza equilibrata e al di sopra delle parti. È l’opinionista del «New York Times» Ross Douthat. Riassumo qui una sua analisi intitolata proprio Cosa pensano gli indecisi. Douthat conferma l’impressione di scioltezza, disinvoltura e sicurezza che Harris ha dato nel dibattito televisivo del 10 settembre, in cui ha attirato Trump in trappola e lo ha spinto a esibire il peggio di sé. Dietro l’ottima performance di Kamala però c’era «una fuga dal bilancio reale dell’Amministrazione di cui lei fa parte». I risultati dell’azione di Governo di Biden-Harris, Douthat li elenca come segue. Una impennata storica di migranti clandestini, avvenuta senza un serio intervento normativo né un vero dibattito. Una fiammata di inflazione, dapprima innescata dalla pandemia ma poi alimentata dai deficit pubblici dell’Esecutivo democratico. La ritirata dall’Afghanistan gestita in modo disastroso. Una guerra in Europa che rimane aperta al rischio di escalation.
La conversione dell’élite all’estremismo woke, con ripercussioni concrete sull’adozione di politiche nefaste per quel che riguarda la criminalità, le droghe, la scuola. «La campagna di Harris spera che gli elettori dimentichino o perdonino questo, mentre si presenta come un fattore di cambiamento e promette che l’America non tornerà al passato». Quello che i democratici chiedono all’elettore indeciso – con ogni probabilità un moderato di centro – non è solo di accettare qualche compromesso sui principi pur di mantenere fuori dalla Casa Bianca un populista pericoloso, instabile e disonesto. No, secondo l’opinionista del «New York Times» i democratici stanno chiedendo agli indecisi di perdonare i loro fallimenti politici e il fanatismo ideologico di una certa loro parte, sulla base della fragile promessa che Kamala non ripeterà quegli errori.