La curatrice Michaela Oberhofer, antropologa dell’arte e curatrice della sezione africana del museo, illustra le novità
Dopo tre mesi di chiusura per il rinnovo del sistema di illuminazione, il Rietberg Museum di Zurigo ha riaperto le sale permanenti il 23 luglio. La pausa ha avviato il rinnovo delle sue collezioni di arte africana, asiatica e delle Americhe: 32mila oggetti etnografici tra i quali 1600 miniature indo-pakistane (ora esposte in parte in una mostra temporanea), le millenarie ceramiche cinesi e i bronzi himalayani e più di 49mila fotografie. Con la possibilità di visionare il tutto online, nonché di consultare gli innumerevoli documenti degli archivi, così che questo patrimonio sia a disposizione di tutti gli interessati e ovunque.
Ma la novità per il grande pubblico è un’altra: la Direttrice Annette Bhagwati e i suoi collaboratori hanno messo mano alla struttura degli allestimenti museografici dell’esposizione stabile. Un cambio di prospettiva in linea con i tempi, che ha portato al rinnovo delle quattro grandi sale dedicate all’Africa, prima tappa di un percorso che toccherà in seguito il resto delle collezioni.
Abbiamo visitato la parte rinnovata con Michaela Oberhofer, antropologa dell’arte e curatrice della sezione africana del museo, che ha operato in collaborazione con autorità, studiosi, accademici e artisti africani.
«La principale novità – spiega – è che accanto a una scelta di oggetti etnografici tratti dalle nostre collezioni, presentiamo opere di artisti africani contemporanei. Facciamo dialogare tra loro queste due realtà per documentare i legami degli artisti con il passato del loro Paese di origine e per farci riflettere sui nostri comportamenti nei confronti delle culture altre e sul colonialismo. Si vuole cioè presentare non solo il punto di vista del colonizzatore occidentale (etnografo, commerciante d’arte, collezionista o museologo), ma anche quello del colonizzato, o dei suoi discendenti attuali».
Entriamo nella prima sala allestita in collaborazione con la giovane artista congolese Michèle Magema; sulle pareti sono tracciate delle linee tortuose; non sono lì a caso, ruotano attorno a un personaggio che in fondo è il perno di tutta l’esposizione.
«Le linee ricordano il percorso africano che Hans Himmelheber (1908-2003) ha fatto negli anni 1938-1939 tra Congo, Liberia e Costa d’Avorio, riportando migliaia di oggetti tradizionali, fotografie, disegni, resoconti e testimonianze, poi donati dalla famiglia al nostro museo. Quello che questo antropologo tedesco ha fatto di eccezionale è stato di interessarsi più ai creatori delle opere che vedeva e acquistava che non alle opere stesse, convinto che di veri artisti si trattasse». Non dunque un’arte anonima, artigianale o tribale, ma vere e proprie opere d’arte con tanto di autore riconoscibile. Al contrario di quanto facevano allora gli amanti dell’arte africana, dagli artisti ai collezionisti, più che altro interessati alla bellezza dei manufatti. Le maschere sono una componente essenziale di tutta l’esposizione, da interpretare come un elemento fondamentale in tutto il contesto di vita di un popolo: credenze, cerimonie, danze, status. Spiccano in particolare i ritratti che Hans Himmelheber si fece fare da quattro scultori per mettere a fuoco i diversi stili di ciascuno, dal figurativo all’astratto.
«Maschere nelle quali ben si riconoscono alcune caratteristiche fisiche del soggetto: il naso pronunciato, la forma della bocca, la fronte ben marcata. Questo per dimostrare l’unicità della creazione di ogni singolo artista».
Nei suoi viaggi Himmelheber ha raccolto migliaia di reperti che ha poi venduto a molti musei tedeschi, francesi e anche svizzeri, per finanziare le sue spedizioni e i suoi studi, sfociati in molte pubblicazioni.
L’artista Michèle Magema ha lavorato su questo eccezionale archivio, soprattutto sulle migliaia di fotografie.
«Ha scelto 81 fotografie che l’hanno colpita e a quelle si è ispirata per creare altrettanti disegni colorati. Ha reinterpretato le vecchie immagini in bianco e nero sovrapponendovi la sua anima moderna e le sue inquietudini. Una foto ritrae ad esempio un anziano su una canoa: l’artista si chiede “ma chi era”? magari quell’uomo anonimo è stato un mio antenato. Un modo per legare il passato col presente, insomma. In una vetrina accanto, invece, Michèle ha raccolto tessuti creati da mani di vere artiste, destinati a essere portati dagli uomini durante cerimonie tribali; oppure oggetti riservati alle donne, come una coppa per bere vino di palma. Questo per ribadire la presenza femminile nel mondo della creatività africana del passato che non si limitava alla gioielleria; ma che era stata trascurata da collezionisti occidentali quali il barone von der Heydt, Hans Coray, Paul Guillaume, di fatto concentrati sul mondo al maschile».
Concetto ribadito in un altro momento della mostra, quando in una vetrina vediamo alcune composizioni realizzate da donne, impiegando migliaia di perline dai mille colori e dalle forme ricercate, dono di un collezionista privato che ne ha raccolto ben 400! Sono creazioni esibite durante le cerimonie, con il compito di trasmettere valori simbolici e di status sociale.
Sammy Baloji, artista congolese noto internazionalmente, prende invece spunto da una fotografia di un museo belga per proporci alcune sue riflessioni. L’immagine ritrae un gruppo di coloni comodamente seduti in un soggiorno mentre chiacchierano e bevono; sulle pareti trofei di animali morti e un grande corno in ottone che serviva per dare inizio alle battute di caccia grossa.
«Sammy ha ricreato un corno del tutto simile, sul quale però ha tracciato le scarificazioni (deformazioni cutanee a scopi decorativi e protettivi, ndr) che abbellivano i corpi della sua gente negli anni 30. In un’installazione articolata in più parti vuole tracciare un parallelo suggestivo tra la caccia agli animali e la caccia agli oggetti della tradizione congolese che facevano i bianchi. Il risultato è stato che nei musei hanno esposto cose senza vita, mute e fuori contesto, semplici curiosità; così come appendevano ai muri di casa le teste delle loro prede. Bisogna ora ridare agli oggetti la loro spiritualità, quella che li ha fatti vivere per generazioni e ha dato loro un senso compiuto» conclude la curatrice Michaela Oberhofer.
Un ribaltamento di valori e un allargamento di orizzonti dunque che ricorrono in tutte le installazioni e le vetrine delle sale africane del nuovo Rietberg delle quali ho dato solo pochi esempi; come lo è anche il tema del sincretismo, evidenziato particolarmente in ambito religioso, che ha portato alla creazione di oggetti che contengono tratti della tradizione africana, mescolati con quelli dell’Islam e del Cristianesimo (vedi Costa d’Avorio ed Etiopia): maschere portate durante le danze che accompagnavano la fine del Ramadan o dipinti e sculture che sottolineavano ricorrenze del calendario cristiano. Un messaggio di tolleranza più che attuale.