Ecco il folle progetto di Ben Gvir in Israele
In seguito alla duplice distruzione del Tempio a opera del babilonese Nabucodonosor e del romano Tito, che hanno dato origine a secoli di esilio e persecuzioni, i sacrifici e il culto sacerdotale ebraici sono stati sostituiti dalle preghiere in attesa della ricostruzione di un nuovo santuario che la tradizione ascrive alla fine dei tempi preceduta dall’avvento del Messia (Isaia 2,2). Sino ad allora la maggior parte dei rabbini concorda secondo la Torà nel vietare agli ebrei di far ingresso nell’intera area del Monte del Tempio, per evitare di calpestare le parti sacre oggi difficilmente perimetrabili. Tali pronunce in materia di diritto ebraico sono diventate ancora più rilevanti nel 1967 con la vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni, che ha restituito agli ebrei il controllo dell’intera area. Da allora, a fronte della presenza delle moschee di Al-Aqsa e della Cupola della Roccia edificatevi dagli islamici, il Monte del Tempio è diventato luogo conteso e politicamente molto delicato, ragion per cui la condotta dei sionisti religiosi estremisti assume il significato di umiliante provocazione nei confronti dei fedeli musulmani e del già precario status quo dei luoghi santi di Gerusalemme.
Incurante di tutto ciò, e approfittando del caos generale, il fanatico e irresponsabile ministro israeliano Ben Gvir prosegue invece con le sue arroganti passeggiate sul Monte del Tempio di Gerusalemme, minacciando anche di attuare a breve il folle progetto di ripristinare i rituali del santuario con tanto di sacrifici animali. E pensare che proprio al Terzo Tempio (Einaudi) ha dedicato la sua ultima opera Abraham Yehoshua, preoccupato fino alla fine del destino del suo amato Paese. In una breve novella lo scrittore propone una soluzione fuori dagli schemi all’annosa questione dei luoghi santi, collocando il suo Terzo Tempio fuori dalle mura della città vecchia nei pressi del cimitero del Monte degli Ulivi: «Seppur modesto, questo Tempio assumerà un ruolo drammatico e rivoluzionario. Non vi si eseguirà nessun sacrificio, né vi si rinnoveranno rituali, ma gli inni e i canti faranno sì che i nostri morti risorgano a nuova vita».
Per promuovere la sua visione, Yehoshua ha scelto Esther Azoulay, una giovane donna osservante ma di origini straniere, vittima di un’ingiustizia di diritto ebraico architettata con maestria per impedirle il matrimonio con l’amato David Mashiah (lett. Messia). Ad accoglierla presso il tribunale rabbinico di Tel Aviv, Esther trova il rabbino Nissim Shoshani, giudice appartenente al mondo sefardita ultraortodosso che raccoglierà con pazienza e umanità la sua testimonianza. Dopo aver ammesso, intorno al 2016, il fallimento della soluzione dei due Stati e aver ipotizzato la dolorosa necessità di uno Stato unico per israeliani e palestinesi, Yehoshua aveva compreso che, per vincere la lotta contro il fanatismo che tiene in ostaggio la società ebraica, impastando la religione con la politica, sono necessari nuovi assetti e persino «alleanze» sino a poco prima impensabili per lui, intellettuale laico, come quella con il rabbino Ovadia Yosef incarnato da Shoshani. Gli indizi sono chiari, a partire dalla fotografia di Ovadia Yosef che svetta sulla parete dell’ufficio del rabbino, sino al riferimento della specializzazione di Shoshani nelle controversie relative alle agunòt, le donne «incatenate» nei loro matrimoni perché il marito risulta disperso o rifiuta di concedere loro il divorzio. Il rabbino Ovadia Yosef è infatti considerato uno dei maggiori esperti in materia per aver «liberato» con le sue preziose sentenze oltre 900 mogli dei soldati dispersi nella Guerra del Kippur del 1973, consentendo loro di risposarsi benché non si fosse ritrovato il corpo dei mariti. Ed è stato esplicito anche nel ribadire il divieto per gli ebrei di fare accesso al Monte del Tempio.
Seppure ideologicamente agli antipodi nel corso della vita, Abraham Yehoshua e il rabbino Ovadia Yosef affondano entrambi le radici nel mondo ebraico sefardita orientale della città di Gerusalemme, dove il calore si mescolava alla tolleranza e all’umanità, morbida eredità dell’esperienza diasporica nei Paesi arabi, profondamente diversa da quella ashkenazita europea. Inoltre, all’inizio della sua carriera di decisore Ovadia Yosef ha prestato servizio nello stesso tribunale rabbinico dove giudicava il rabbino Hananya Gabriel, nonno paterno di Yehoshua. Ecco che il lascito dello scrittore israeliano, incrocia l’eredità spirituale del rabbino, ingaggiando insieme una battaglia in nome della vita contro le forze che minacciano il popolo di Israele, anche e soprattutto dal suo interno, «perché i nostri morti sono fin troppi». Chissà se il mondo sefardita orientale e le donne osservanti dei precetti, come Esther Azoulay, due universi sino ad ora silenziati e considerati marginali dalla narrativa sionista dominante, non dimostreranno il potenziale necessario per traghettare Israele fuori dalla crisi?