Un’esperienza capace di ridare luce a tutti gli esseri umani anonimi inghiottiti dalla ruota della storia
«Il gioco è così vasto che se ne vede solo un po’ per volta». Sono parole di Mahbub Ali, un commerciante di cavalli afgano e una spia che lavora per gli inglesi nell’India di fine Ottocento. Ad ascoltarlo è Kim, il ragazzino protagonista del romanzo pubblicato da Rudyard Kipling nel 1901 (Kim, Adelphi 2000).
Il Grande Gioco è la guerra di spionaggio che nel XIX secolo coinvolse la Russia e la Gran Bretagna. I due imperi miravano al controllo dell’Asia centrale, in particolare dell’Afghanistan e delle zone al confine con l’India. A usare per primo l’espressione «Grande Gioco» fu Arthur Conolly, scrittore, esploratore e spia, giustiziato dall’emiro di Bukhara nel 1842. Fra l’altro, i russi intervennero per tentare di salvarlo: nella complessità del Great Game a volte i nemici correvano in soccorso gli uni degli altri.
Quando finì questa lotta strisciante? Ufficialmente all’inizio del XX secolo. Ma come scrisse lo storico Peter Hopkirk, «qualcuno potrebbe dire che il Grande Gioco, che si continua comunque a giocare, ha precorso la Guerra Fredda, nutrendosi degli stessi timori, sospetti e malintesi» (Il Grande Gioco. I servizi segreti in Asia centrale, 1990, Adelphi 2004). E oggi? L’Afghanistan resta al centro dell’attenzione. Dopo gli inglesi e i russi, sconfitti rispettivamente nel 1842 e nel 1979, nel 2021 è toccato agli americani ritirarsi dal Paese, lasciandolo preda della ferocia talebana.
Studiare la storia dell’Asia centrale aiuta a capire il presente. Un modo piacevole per approfondirla è il gioco da tavolo Pax Pamir (Phil Eklund, Cole Wehrle, Sierra Madre 2015), che io consiglio nella seconda versione (Cole Wehrle, Wehrlegig Games 2019; in italiano Giochix 2020). I partecipanti, da uno a cinque, assumono i ruoli di capi afghani: essi devono sfruttare a loro vantaggio le dispute dei ferengi, degli stranieri inglesi e russi. Pax Pamir è innovativo, complesso ma non tortuoso: ogni regola si adatta alle altre nel mimare il Grande Gioco. Bisogna stabilire alleanze, sfruttare le strade e gli eserciti occidentali, muovere le proprie spie. Questo avviene con la costruzione di una plancia personale, formata da carte che permettono azioni particolari, ma anche con la lotta per il dominio territoriale (c’è una mappa del paese perfetta nella sua essenzialità grafica, con un sistema di controllo ingegnoso).
Uno degli aspetti originali di Pax Pamir è quello di avere assunto il punto di vista afghano. Fra i libri serviti di ispirazione all’autore, oltre al saggio di Hopkirk che ho citato prima, c’è Il ritorno di un re di William Darlymple (2013; Adelphi 2015). Darlymple narra in maniera appassionante la prima Guerra anglo-afghana (1839-42). Per documentarsi è stato a Kabul, dove ha potuto consultare gli archivi nazionali, oltre a setacciare botteghe di libri e biblioteche. Nel libro cita documenti in russo, in persiano e in urdu, incrociando i fatti raccontati nei poemi epici afghani con i dati della storiografia inglese. Sulle carte di Pax Pamir si ritrovano molti personaggi delle opere di Hopkirk e Darlymple (e di altri volumi ancora che Colin Wehrle cita come bibliografia nelle regole del gioco).
A chi volesse provare un’esperienza simile ma più semplice, consiglio König of Siam (Peer Sylvester, Histogame 2007), più facile da reperire nella sua versione rinnovata: The King is dead: second edition (Osprey Games 2020; in italiano Studio Supernova 2021). La prima edizione è ambientata in Siam nel 1874: il re ha avviato delle riforme che hanno portato a un conflitto fra malesi, laotiani e realisti. Le fazioni cercano di prevalere, mantenendo però almeno un’apparenza di unità per impedire un’invasione britannica. Nella versione aggiornata la lotta avviene nella Bretagna medievale tra scozzesi, gallesi e romano-britanni, tentando di evitare l’invasione francese. Il gioco è minimalista ma profondo, pur nella brevità. I partecipanti, da due a quattro, hanno a disposizione solo nove azioni in tutta la partita: ogni scelta può quindi rivelarsi decisiva.
Quando mi cimento in questi giochi, soprattutto in Pax Pamir, penso ai dimenticati. La guerra di spie è dura, crudele e silenziosa: non ci sono né battaglie campali né discorsi per i caduti. Come dice un personaggio di Kim: «Noi del Gioco non godiamo di protezione. Se moriamo, moriamo. Cancellano il nostro nome dal registro. Punto e basta». Nel gesto di giocare, per un istante, riprendono vita i soldati anonimi, gli sconosciuti che la ruota del tempo e della storia ha trascinato nell’oblio.