Nei casi di malattie croniche l’integrazione precoce delle cure palliative migliora sensibilmente la qualità della vita
«Quello con la signora G., per me, è stato un incontro importante perché mi ha insegnato quali sono i bisogni del paziente di cure palliative, dall’inizio del suo percorso». Così comincia il racconto di una delle più toccanti esperienze della professoressa Claudia Gamondi, già primario di Cure Palliative all’Eoc e oggi primario di Cure palliative e di supporto al Centro ospedaliero universitario del canton Vaud di Losanna.
A 55 anni G. soffre di lombalgia e, dopo una settimana di analisi, la diagnosi è implacabile: tumore al pancreas in stadio avanzato. «Con lei ho vissuto fianco a fianco tutti i suoi otto mesi di percorso, dalla chirurgia, alla chemioterapia, ai farmaci necessari per stare meglio possibile (oppioidi che poi le portavo personalmente a casa). L’ho accompagnata dovunque: dal diabetologo e da altri specialisti; ed ero lì quando le hanno comunicato che non c’era più “nulla da fare”. Non abbiamo condiviso solo le esperienze fisiche della malattia, ma abbiamo parlato a lungo dell’esperienza vissuta da lei e dalla sua famiglia attraverso la malattia. Come tutti questi pazienti, G. non aveva bisogno solo di trattamenti medici. Abbiamo condiviso cosa significa avere una patologia oncologica e tutto quello che ciò comporta».
A un certo punto, la dottoressa Gamondi rientra al lavoro dopo tre settimane di assenza; al giro delle visite in reparto si sente chiamare da una persona in un letto: «Era lei, che mi dice: “Claudia, non mi riconosci? Sono io. Questo è quello che il cancro fa alle persone: le persone non mi riconoscono, non mi riconosco più nemmeno io”».
La «frattura» che la dottoressa descrive a proposito «dell’incapacità di essere vista» della paziente, la induce a riflettere parecchio sull’importanza dell’integrazione delle cure palliative in un percorso sufficientemente precoce da creare, oltre a una migliore qualità di vita, anche una consapevolezza e un’elaborazione graduale di quanto succederà. «G. è deceduta qualche notte dopo quel nostro incontro». Quando il suo capo le chiede se lei era lì con la paziente, lei risponde: «Sì, sono stata con lei tutta la notte». Eppure, tutto ciò che Claudia Gamondi spiega di aver visto lungo quel percorso di accompagnamento nelle cure palliative «era molto diverso da ciò che gli altri medici vedevano. Nelle cure palliative, una buona parte delle persone vedono bare, vedono solo la morte; io ci vedo un panorama, ci vedo la vita, una vita degna e migliore possibile, fino alla fine».
Di fatto, le Cure palliative sono ancora erroneamente associate esclusivamente al concetto di fine vita, ma così non è: «A torto, le persone vi vedono solo la fine, la morte, che peraltro non vorrebbero vedere. La conseguenza di questa visione crea la dicotomia tra cure curative e cure palliative, e ciò nuoce a tutti: al paziente, alla famiglia, alla società. Nascondere la morte significa nascondere il processo curativo in quello palliativo, e questo non mi è mai piaciuto». L’Organizzazione mondiale della sanità definisce le cure palliative come un «approccio per migliorare la qualità di vita dei pazienti e dei congiunti che affrontano i problemi associati a una malattia letale», e punta a prevenire e alleviare la sofferenza attraverso una diagnosi precoce, l’attenta valutazione e il trattamento del dolore, nonché di altri problemi di natura fisica, psicosociale e spirituale.
Dunque, si chiede la nostra interlocutrice, «Cosa sono le cure palliative? Cure di fine vita? Sì. Ma ogni medico è chiamato a curare anche la fine della vita. Ecco, le cure palliative sono di più, e non si fermano alla cura dei sintomi». Così, la dottoressa Gamondi va oltre, ricordando una definizione forgiata da un maestro delle cure pallitive (B. Mount): «L’espressione “Cure palliative” sottintende una forma personalizzata di cure, va al di là del modello biomedico, verso un orizzonte più vasto come condizione necessaria per farsi carico adeguatamente sia della sofferenza sia della biologia della malattia».
In questo senso, l’obiettivo è quello di promuovere una qualità di vita migliore e ottimale: «Si tratta di cambiare il paradigma e pensare di promuovere la guarigione, nel senso di cambiare la risposta verso un’esperienza di integrità e di interezza nel continuum della qualità di vita». Nel medesimo contesto, si inserisce il concetto evolutivo delle cure palliative integrate e precoci, che non si «insinuano» nella cura dei pazienti oncologici terminali: «Tutte le persone con malattie cronico-degenerative ad andamento progressivo e a prognosi infausta, e i loro famigliari, possono essere presi a carico in un percorso di cure palliative precoci. Dunque, le cure palliative precoci non sono da intendersi come cure di fine vita, ma come un approccio palliativo precoce a una persona con malattia inguaribile che può ancora rispondere a trattamenti specifici, in condizioni cliniche buone o discrete, anche in assenza di sintomi, con sintomi lievi o disturbanti».
La specialista sottolinea come la presa in carico precoce delle cure palliative è utile perché la persona malata ha una patologia che deve essere curata anche nei disturbi che provoca, perché le persone non sono la loro malattia, non sono solo corpo, ma sono corpo e mente e devono essere prese a carico globalmente: «Le cure palliative precoci sono integrate da subito nel processo di cura, e non al loro termine, permettendo in tal modo di unire diversi aspetti clinici, organizzativi, amministrativi, di servizio, così da assicurare la continuità delle cure fra tutti gli attori implicati. Ricordiamo che lo scopo è di assicurare al paziente e alla sua famiglia una qualità di vita e un accompagnamento consapevole durante l’ evoluzione della malattia cronica evolutiva, in collaborazione con tutti i curanti».
Le cure palliative precoci si inseriscono, dunque, in modo coordinato, nel percorso con gli specialisti, i professionisti e il medico di famiglia, per garantire al malato e alla sua famiglia una presa a carico globale: «Si tratta di un percorso basato sul dialogo e su una comunicazione aperta, empatica e sincera; uno strumento di accompagnamento della persona, della famiglia e dell’équipe sanitaria che inizia già al momento della diagnosi e segue con continuità tutta la strada della malattia, con una progressiva valutazione e rivalutazione dei bisogni che ne emergono».
Di questa visione, la dottoressa Gamondi riassume i benefici salienti: «La loro integrazione precoce migliora la qualità e la quantità della vita, e non esclude affatto le terapie votate ad allungare la vita stessa, di cui è un complemento. Infine, i pazienti e i loro cari possono godere della collaborazione interdisciplinare dei professionisti che si fanno carico del percorso terapeutico».