Il femminismo critico di Jessa Crispin
I miei tre papà. Come liberarsi dai fantasmi del patriarcato di Jessa Crispin, edito da Sur con la traduzione di Giuliana Lupi, è un libro più unico che raro.
Ultimamente capita, soprattutto a quelle che se ne occupano da anni, di provare una certa frustrazione quando il discorso vira sul femminismo: sono pochi infatti i testi o i momenti di riflessione in cui si riesce ad arricchire il discorso critico sul tema, d’altra parte sono molte le angosce rispetto a un mondo occidentale spesso governato dalle donne eppure sempre più in crisi. Uno dei problemi di questo appiattimento del dibattito sono la superficialità e l’eccessiva semplificazione del modo di affrontare una questione così importante. Crispin non la fa difficile, questo non è un libro per specialiste dell’argomento, ma non sposta mai l’obbiettivo dal bersaglio, non fa mai finta che i problemi principali della nostra civiltà non siano la violenza e la venerazione del denaro.
Il testo si divide in tre parti: «il padre di famiglia», «il cittadino», «il dio».
Si apre con la descrizione della sua vita in una casa nello stato del Kansas, non lontano da dove ha trascorso la sua infanzia e adolescenza, infestata da un fantasma, l’uomo che vi abitava prima. Non importa credere o meno all’esistenza degli spiriti, ciò che conta è provare a interrogarsi su cosa comporti, che significhi l’immagine del fantasma dell’Uomo nella vita di ognuna di noi. La prima questione che Crispin affronta è di come gli uomini in carne e ossa si ostinino a trasformare in ectoplasma le loro mogli, figlie, fidanzate: «di questi tempi ogni donna bianca morta diventa una storia. Un podcast in otto episodi o una docuserie in otto puntate su Netflix […] E perché non raccontarla quella storia? Raccontare le storie non cambia le cose in meglio? Ma sono decenni che raccontiamo queste storie e i cadaveri continuano ad accumularsi».
È bene specificare che l’intera riflessione di Crispin è radicata nella società statunitense, infatti spesso da questa parte del mondo le storie delle donne uccise vengono rimosse perché l’industria europea dello storytelling è meno potente, evidentemente. Ci sono degli aspetti, poi, legati soprattutto al fanatismo religioso e alla possibilità per tutti di detenere armi da fuoco, col numero di stragi che ne conseguono, che mal si adattano al contesto europeo. È anche vero, però, che la distanza che si percepisce non è affatto così sconfinata e a prevalere non è infatti la sensazione che gli esempi che Crispin utilizza non ci riguardino quanto quella di appartenere anche a noi a quella stessa civiltà.
La riflessione sulle ingiustizie perpetrate da una società dominata dall’avidità è inevitabile in un testo fortemente politico come questo: Crispin si sofferma per decine di pagine sul concetto di innocenza, su come giudicare coloro che negli Stati Uniti sono considerati degli eroi anche se hanno commesso delle stragi o su come continuare a vivere in un mondo in cui vengono trasmessi tantissimi film su donne e uomini che a un certo punto imbracciano il fucile per salvare l’umanità, dicono, peccato che lo facciano ammazzando decine di altri esseri umani.
È molto interessante, infatti, il modo in cui Crispin smitizza il concetto di comunità, particolarmente in voga nell’ultimo periodo. Di fronte all’individualismo dilagante, infatti, si cerca giustamente un antidoto, ma la risposta non risiede nel chiudersi insieme a persone che la pensano come noi, che abitano nello stesso posto o che appartengono alla stessa etnia: «i neonazisti hanno un grande senso della comunità, e così pure i no-vax e i miliziani. Quello di cui abbiamo bisogno è la società». A partire da questa distinzione Crispin fa un riferimento memorabile al cosmopolitismo, concetto sorto in seno alla riflessione degli enciclopedisti nel XVIII secolo in Francia che certamente non erano abbastanza femministi, ma hanno posto pietre miliari rispetto all’ideale della libertà: «il cosmopolita vedendo una prateria incontaminata non sogna di costruirci un ritiro per artisti esauriti. Vedendo una donna col velo non si sente tenuto a dirle che non è obbligata a vivere in quel mondo. Magari contribuirà a creare un ambiente dov’è possibile prosperare, ma non ha un’idea rigida di cosa significhi prosperare. Se non quella di evitare situazioni in cui un gruppo ne soffochi un altro».
Crispin pone due assunti fondamentali: le donne sono hantées, perseguitate dai fantasmi di padri, fratelli, preti, inquisitori, giudici, assassini di ogni tipo. Per questo permane in noi la sofferenza di millenni di soprusi, anche mentre viviamo le nostre vite di donne emancipate. Poi, la filosofa statunitense fa giustamente notare che nessuna di noi può «fingere di non vedere il sangue sul pavimento». Ciò che va perseguita, quindi, è la liberazione, perché non c’è potere senza liberazione come scrive Susan Sontag (ne abbiamo parlato nell’articolo Politica e femminismo sul numero 26 di «Azione») e perché il patriarcato non è stato davvero depotenziato se le donne continuano a essere uccise, violentate, abusate per lo più dai familiari, se l’aborto viene reso illegale, se ovunque nel mondo non si difende mai l’umanità, ma sempre la ricchezza di pochi e poco conta che a farlo sia una persona con la gonna. La liberazione, in un testo come questo in cui l’aspetto spirituale è fondamentale, non è certo cosa semplice, né qui si trovano le istruzioni per realizzarla, ma c’è almeno un consiglio che seppur piccolo può essere utile e che per quanto semplice spesso dimentichiamo: «potevo semplicemente andarmene».