Ai giovani diamo cose vere

by Claudia

Toni Servillo questa sera sarà a Varese per uno spettacolo teatrale

Quattro anni fa il «New York Times» l’ha inserito tra i cento migliori attori del secolo, e come miglior attore ha vinto quattro David di Donatello e altrettanti Nastri d’argento, senza dimenticare i tre Ciak d’oro i due European Film Awards e Globi d’oro. Toni Servillo, volto indimenticabile in Gomorra di Garrone e di Giulio Andreotti ne Il divo, candidato all’Hollywood Film Festival per l’interpretazione di Jep Gambardella ne La grande bellezza, il film di Paolo Sorrentino premio Oscar come miglior pellicola straniera, sarà ospite stasera della rassegna teatrale Tra Sacro e Sacro Monte di Varese. Appuntamento che ha portato in questi anni il meglio del teatro italiano tra le cappelle del Sacro Monte in cui Annunciazione, Natività, Passione e Crocifissione, Resurrezione e Assunzione gloriosa in cielo si fanno mirabili scene di teatro barocco con statue e affreschi racchiuse in quindici, monumentali cappelle: Piera Degli Esposti e Lucilla Morlacchi, Giorgio Albertazzi, che lì lesse il suo amico Eliot, Massimo Popolizio e Massimo Giannini, quest’anno Laura Marinoni e questo giovedì Davide Van De Sfroos a omaggiare Bob Dylan.

Stasera però, anche per la straordinaria richiesta del pubblico, Servillo non si esibisce in cima alla Via Sacra, bensì ai Giardini Estensi, accompagnato dall’Orchestra Sacro Monte nella lettura dei testi che Giovanni Testori dedicò alla pittura di Renato Guttuso. Per noi l’occasione di incontrarlo.

Che cosa la porta dal grande schermo a leggere Testori a Varese?
L’esigenza di vivere io in prima persona e di proporre al pubblico, e innanzitutto desidererei ai giovani, l’esperienza di qualcosa di bello, di significativo, di valore. In questi mesi sto portando in tournée Tre modi per non morire di un grande scrittore quale è Giuseppe Montesano, dove pagine di Baudelaire si intrecciano con i versi di Dante e dei tragediografi greci, e devo dire che è palpabile l’interesse degli spettatori, tra cui tanti giovani. È una tappa di un percorso che accompagna tutta la mia carriera: per me teatro e cinema non sono mai stati inconciliabili, non ho mai dato la priorità al grande schermo, anche se ovviamente è quello che dà la notorietà maggiore. Faccio degli esempi: nel 2001 ho recitato nel primo film con Sorrentino (L’uomo in più, ndr.), quattro anni dopo con il suo Le conseguenze dell’amore ho vinto un David di Donatello come miglior attore protagonista (nella foto ritratto in quell’occasione a Cinecittà) e un Nastro d’argento; però allo stesso tempo facevo la regia del Malato immaginario di Molière, dal 2002, per quattro anni, ho girato l’Europa con Sabato, domenica e lunedì di Eduardo De Filippo. E così anche dopo: ad esempio alla regia della Trilogia della villeggiatura di Goldoni sono seguiti i David di Donatello per La ragazza del lago e Il divo.

Dalla sua prospettiva, dal punto di vista di chi sta sul palco e guarda verso la platea, scorge ancora nella gente il desiderio di una «grande bellezza»?
Sì, e penso di poter dare questo giudizio non solo limitandolo a chi viene a vedere degli spettacoli teatrali, quindi in qualche modo un «campione selezionato». Parliamo dei giovani, che ci sono e non sono pochi tra il pubblico: è vero quel che si dice su social, cellulari e i vari strumenti che tendono a immergerli sempre più in una dimensione virtuale, ma è altrettanto vero che appena si propone loro qualcosa di concreto, di «vero», pieno di bellezza e senso, questo fa esplodere la loro sete di concretezza, di realtà. E loro scattano, ne sono calamitati. Ciò mi suscita ammirazione ma non mi stupisce, perché è una nostra dimensione costitutiva, che può essere anestetizzata, magari anche parzialmente soffocata, ma mai totalmente e definitivamente repressa, anzi: è sempre pronta a riemergere e vibrare con potenza, ma deve trovarsi davanti qualcosa per cui valga la pena farlo. Per questo reputo uno dei nostri non solo impegni, ma doveri principali di attori il continuare a mettere in contatto i giovani e non solo i giovani con certe espressioni artistiche e certe esperienze dell’umano.

Che espressione artistica e che esperienza umana emerge dagli scritti che Giovanni Testori dedicò a Renato Guttuso?
È la storia di un’amicizia in cui ci sono stati momenti di vicinanza e di allontanamento, di profonda sintonia e di contrasti anche aspri; ma tutto, sempre, in nome di un di più di amore, di un affetto più grande che tutto abbracciava e ricomponeva. È interessante notare che secondo Testori contrasti e ricomposizioni sono anche la cifra del linguaggio, dello stile e anche dello spirito della pittura di Guttuso: vedeva nei suoi quadri l’ombra di una ferita, la traccia di una lacerazione, come se sulla realtà rappresentata sulla tela incombesse una minaccia; ma allo stesso tempo riconosceva nel pittore una sorta di chirurgo in grado di suturare quelle ferite, di ricomporre quelle lacerazioni. Non sempre: talvolta continuano a sanguinare; Testori arriva addirittura a scrivere che nelle tele di Guttuso sente «stridore di denti».

Un linguaggio non tipico del critico d’arte.
Mi colpisce molto, infatti, perché è un esempio mirabile di incontro tra l’arte pittorica e l’arte dello scrivere; e quando un grande scrittore si dedica all’arte, eleva la prosa d’arte e soprattutto, ancor più importante, fa incontrare la critica d’arte con la vita vera, con la vita vissuta. Allo stesso modo, le ricomposizioni che Testori rintraccia nell’arte di Guttuso e che segnarono il loro rapporto di amicizia, penso siano anche una suggestione per il rapporto tra Nord e Sud: una questione sempre aperta e sempre problematica, ma Testori, lombardo di Novate Milanese, e Guttuso, palermitano di Bagheria, ci raccontano di un’intensa corrispondenza tra un uomo del Nord e un uomo del Sud, dove l’unità tra loro è segnata dall’arte, dalla cultura, dal senso della bellezza cui entrambi anelavano. Credo possa essere un suggerimento, un elemento di riflessione quanto mai attuale.