Cento anni dall’assassinio di Matteotti

by Claudia

Giacomo Matteotti, di cui ricorre tra poche settimane il centenario dell’assassinio (10 giugno), sarebbe stato un leader naturale della socialdemocrazia europea. Se fosse stato vivo nel secondo dopoguerra, avrebbe potuto dialogare alla pari con figure come l’inglese Clement Attlee e il tedesco Willy Brandt. Era rigoroso eppure pragmatico, dotato di una visione internazionale, competente in economia. Tra le sue responsabilità, Mussolini ha anche quella di aver privato il Paese di figure – Giovanni Amendola, Antonio Gramsci, Giacomo Matteotti, Carlo Rosselli assassinato con il fratello Nello – che avrebbero contribuito a costruire un’Italia migliore. Il Duce ha distrutto una classe politica a suon di bastonate – si pensi solo ai cattolici, don Sturzo costretto all’esilio, De Gasperi e Gronchi fuori gioco per 20 anni, don Giovanni Minzoni assassinato – per sostituirla con un ceto mediocre, ottuso e xenofobo, autoritario e violento, selezionato in base all’obbedienza e non all’intelligenza.

Matteotti era di Fratta Polesine, all’epoca una delle zone più povere d’Italia. Fame, malattie, analfabetismo, emigrazione: un abitante su tre tenta la sorte in Sud America. Nel 1914, al congresso provinciale del partito di Rovigo, incontra per la prima volta Benito Mussolini e capisce subito di avere davanti un uomo privo di scrupoli. Matteotti è un riformista, Mussolini un massimalista: non gli interessa migliorare le condizioni dei lavoratori, gli interessa la rivoluzione, almeno a parole. In realtà quel che gli preme è il potere. Alle elezioni del 1919 Matteotti è eletto deputato, entra nella commissione Finanze e Tesoro. Il partito socialista a Rovigo è al 70%, l’anno dopo conquista tutti i 63 Comuni del Polesine. Matteotti studia moltissimo. Condanna gli eccessi del biennio rosso. Di fronte alle violenze fasciste, invita i socialisti a evitare ritorsioni, a confidare nella giustizia e nello Stato. Nel gennaio 1921 gli squadristi lo aggrediscono per la prima volta, a Ferrara.

La moglie gli scrive di stare attento ma nello stesso tempo sa già quello che lui farà: «Mi è difficile persuadermi che arrivato a questo punto non ti è ammessa alcuna viltà, anche se questo dovesse costare la vita». Il 10 marzo 1921 Matteotti prende la parola alla Camera per denunciare i crimini dei fascisti. Farà lo stesso nel maggio 1924, due anni dopo la marcia su Roma. Il discorso gli costa la vita. Il pomeriggio del 10 giugno 1924 cinque assassini aspettano Giacomo Matteotti sotto casa, in lungotevere Arnaldo da Brescia, nel centro di Roma. Uno è Amerigo Dumini. Lo afferrano, cercano di trascinarlo verso la loro auto, ma lui dimostra il suo coraggio anche nell’ultima occasione: si dibatte, tenta di mettersi in salvo, fugge lungo la scaletta che scende al fiume. Lo colpiscono alla nuca. Matteotti sviene. Lo portano di peso nella Lancia, che parte verso Ponte Milvio. Lui riprende conoscenza, perde sangue dalla bocca, tenta di liberarsi. Uno dei sequestratori, probabilmente Albino Volpi, lo minaccia con un pugnale, poi lo colpisce, due volte, all’inguine e al torace. Gli assassini proseguono la corsa verso Nord, scavano in fretta una buca in un bosco della Quartarella, a Riano Flaminio. La sera stessa Dumini avverte il Duce. Due giorni dopo i quotidiani danno la notizia della scomparsa di Matteotti. Comincia una tragicommedia di pessimo gusto: Mussolini finge di non sapere nulla. Mentre l’Italia è pervasa da un’ondata di commozione popolare, il dittatore chiede ai suoi di mettere in giro una voce: Matteotti è scappato all’estero. Alla fine il corpo viene ritrovato. Gli assassini sono arrestati. La dittatura vacilla, Croce ed Einaudi firmano il manifesto degli intellettuali antifascisti. Ma l’opposizione è debole e divisa; il re non molla Mussolini.

Così il Duce approfitta del delitto Matteotti per realizzare il suo progetto: imporre una dittatura. Il giro di vite è spietato. Si ritirano i passaporti, nessuno potrà espatriare senza il consenso del dittatore. Addio sindaci, arriva il podestà nominato dal regime. Istituiti il tribunale speciale e la polizia segreta. Ristabilita la pena di morte. Sciolti tutti i partiti, tranne quello di regime. Espulsi 142 deputati di opposizione. Oggi a Roma, cent’anni dopo, non è stato possibile affiggere una lapide dove Matteotti viveva e dove è stato rapito, che lo definisse «vittima del fascismo». I condomini non hanno voluto e li comprendo. Fare professione di antifascismo oggi in Italia può diventare un problema.