La tenacia di Odin

by Claudia

Teatro  ◆  Barba e i 60 anni dell’Odin Teatret al Foce

La scorsa settimana il Teatro Foce di Lugano ha ospitato Eugenio Barba (nella foto), uno degli appuntamenti più attesi proposti dalla rassegna Schegge, una serie di approfondimenti organizzati dal Teatro delle Radici di Cristina Castrillo.

Il passaggio del regista si inserisce nel quadro di un denso programma itinerante creato per ricordare i 60 anni dell’Odin Teatret, la storica compagnia che Barba fondò in Norvegia a Oslo nel 1964 poi trasferitasi nella cittadina di Holstebro in Danimarca.

L’occasione ci permette di esprimere alcune considerazioni a margine di quell’appuntamento: da un lato di rispolverare la nostra memoria, dall’altro di fare il punto su quanto rappresenta ancora oggi quel vento innovativo che Barba chiamò Terzo Teatro, cioè quell’espressione articolata e complessa che va ad aggiungersi al Teatro Classico e a quello Contemporaneo e che ha cambiato il mondo dello spettacolo. Un soggetto che sebbene buona parte degli osservatori e studiosi considera ormai appartenere alla Storia, per altri sopravvive come importante riferimento teorico e pratico come quello dell’Odin.

Una realtà longeva e una tenacia seminale che l’ultraottantenne Barba non considera un’eccezione ma che si inserisce nella storia di gruppi che negli ultimi settant’anni hanno resistito, spesso mantenendo al loro interno il nucleo originario degli attori. In generale, l’esperienza fondatrice di tutti i gruppi di teatro è costituita da esercizi fisici e vocali: «Il training, una caratteristica che obbliga l’attore a impegnare l’intero corpo a resistere nonostante la stanchezza, a superare ostacoli e inibizioni, ad acquisire una disponibilità fisica e mentale, a liberarsi dei condizionamenti privati» (Barba). Ciò contribuisce a creare una vitalità duratura per molti decenni.

Ne sono un esempio la compagnia colombiana della Candelaria, la Yuyachkani in Perù, la Tribo de Atuadores in Brasile, il Teatro Buendìa a Cuba, il Teatro Atalaya e Teatro Norte in Spagna e molti altri ancora. Senza dimenticare il Teatro delle Radici in Svizzera, oltre ai molti gruppi ancora attivi in Italia come il Teatro tascabile di Bergamo, il Teatro Potlach di Fara Sabina, il Teatro Nucleo di Ferrara, il Teatro Due Mondi e il Teatro Ridotto in Emilia-Romagna e il Teatro Proskenion di Reggio Calabria. Tutti gruppi che dimostrano quanto sia possibile durare nel tempo nonostante la vulnerabilità dell’ambiente e delle condizioni di lavoro.

Quella del Terzo Teatro, come scrive il semiologo e storico del Teatro Franco Ruffini, è un’arte indigente, la sua sopravvivenza dipende dalle persone che compongono i gruppi, dalla costanza, dall’energia e dall’autodisciplina. È un teatro che per sua natura, non per scelta o desiderio di ricchezza, ha bisogno di qualcuno o qualcosa che gli fornisca le risorse per esistere (denaro, spazi, strutture…). È un teatro che dipende, come sottolinea ancora Ruffini, da quel «potere» che fornisce quelle risorse.

Ma proprio in quanto dipendente è un teatro che è spinto a cercare un proprio spazio di libertà e indipendenza. È un teatro «altro» che raramente ha potuto contare sul diritto al finanziamento pubblico, ma che ha dovuto trovare risorse grazie ad altre attività come la pedagogia, l’editoria, le attività sul territorio. Più fonti di sopravvivenza che impediscono al mercato di diventare un ostacolo e costituiscono un nuovo sistema di produzione e uno spazio di libertà. Come è confermato dalla multiforme attività dell’Odin e di tutti quei gruppi che ne hanno tratto esempio.

Alla luce dei tempi critici che avvolgono le sorti del teatro indipendente, inteso con le caratteristiche che abbiamo descritto, è possibile chiedersi se il Terzo Teatro non esiste più? Certamente non è più parte di una cultura alternativa come negli anni 70. Se lo spettacolo del Terzo Teatro necessita di continue risorse per sopravvivere, diversa è la sorte del Teatro Laboratorio, una struttura parallela ma parte integrata di un’unica realtà da difendere.