Putin è un pericolo

by Claudia

In Russia lo scontato trionfo dello zar legittimala trasformazione del Paese in dittatura militare

Fino a qualche anno fa nel dibattito politico russo era in voga il termine «problema 2024». Era la data di scadenza del secondo dei due mandati presidenziali consecutivi di Vladimir Putin, che si era già fatto due presidenze (2000-2008), e in tanti pensavano che l’impossibilità costituzionale di ricandidarsi, unita a un’esigenza di cambiamento avvertita dalla stessa classe dirigente putiniana, avrebbero spinto lo zar a cercare un delfino al quale affidare una modernizzazione lenta e pilotata del suo regime. Il 17 marzo scorso il «problema 2024» è stato definitivamente risolto: Putin ha riscritto la Costituzione per ricandidarsi. L’87% tributato a lui dai suoi sottoposti, in un rituale politico che è impossibile chiamare «elezioni», era scontato e atteso, eppure segna una nuova epoca che si apre con il quinto mandato – il terzo consecutivo – del presidente russo.

È evidente che questo numero non c’entra molto con il reale sostegno degli elettori russi alle politiche del Cremlino, sia perché si tratta di cifre non attendibili, soprattutto dopo un quarto di secolo al potere, sia perché il Governo ha controllato tutto il processo, dalla selezione dei candidati alla campagna elettorale, dalle procedure di voto allo spoglio delle schede. Elezioni senza concorrenti – i tre contendenti, quasi sconosciuti al largo pubblico, si sono visti assegnare tutti insieme intorno al 12% delle preferenze – e senza dibattito, con le urne di plastica trasparente e la polizia che rincorreva gli elettori che barravano le caselle «sbagliate». Stavolta la leadership russa non si è presa nemmeno la briga di simulare una procedura elettorale democratica, ed è rimasta apparentemente indifferente al fatto che le prime congratulazioni per la vittoria sono arrivate da Nicaragua, Venezuela, Corea del Nord e Honduras, mentre tutti i Governi occidentali hanno condannato le elezioni come «né libere, né oneste», e non hanno riconosciuto il voto nei territori occupati dell’Ucraina. Ma non ha importanza: il rito elettorale serviva a Putin per mostrare il suo dominio totale sulla macchina dello Stato russo, dal Cremlino fino all’ultima scuola e caserma dell’ultimo villaggio, con un esercito di funzionari, poliziotti, governatori, sindaci, presidi, direttori, comandanti e primari che hanno diretto i loro sottoposti verso le urne, oppure ne hanno alterato il risultato laddove non corrispondeva ai desideri del vertice. Era questo l’obiettivo del leader russo, soprattutto dopo il golpe di Evgeny Prigozhin, e forse era questo l’obiettivo stesso della guerra che il dittatore ha lanciato contro l’Ucraina: trasformare il suo potere in un regime definitivamente personalizzato, dove gli esecutori competono per produrre la percentuale di voto più alta che verrà notata e premiata dallo zar.

Una macchina nella quale non c’è spazio per gli altri partiti del regime, come i comunisti, meno che mai per l’opposizione liberale, che aveva provato a seguire l’appello di Yulia Navalnaya a presentarsi ai seggi, non tanto per tentare di incidere sul risultato, quanto per mostrare di esistere ancora. La spaccatura tra la Russia in esilio e quella rimasta a casa è apparsa più evidente nella giornata del voto, con le code di ore davanti ai consolati russi e i cori che inneggiavano a Navalny e alla pace in Ucraina. Ma il voto dei dissidenti – sia all’estero sia in patria – non ha scalfito il risultato che, per gli esperti di «Novaya Gazeta», è stato il più truccato della storia russa, con un’affluenza impossibile del 78%, gonfiata da almeno 22 milioni di schede falsificate «aggiunte» già nella fase del conteggio dei voti. E per chi resta in Russia gli spazi di una protesta legale e pacifica sono ormai inesistenti: i 120 arresti nei tre giorni del voto l’hanno mostrato chiaramente.

Per risolvere il «problema 2024» non si è fatto ricorso solo alle minacce e alle pressioni: il Cremlino non ha badato a spese, tra lotterie ai seggi con in palio buoni sconto, cesti di provviste, automobili e promesse di trilioni di rubli dispensate da Putin a militari, pensionati, famiglie, industrie e regioni. Non ci sono molti dubbi sull’obiettivo che ora verrà posto a questa macchina collaudata, che ha schiacciato qualunque dissenso o divergenza. L’ha annunciato lo stesso Putin nella notte delle elezioni, «il tema del mio quinto mandato sarà l’operazione militare speciale», la guerra contro l’Ucraina. A chi gli chiedeva un negoziato ha risposto di voler occupare un altro pezzo di Ucraina per farne un «cordone sanitario»; a chi gli chiedeva se si sarebbe andati verso la terza guerra mondiale ha risposto quasi divertito «tutto è possibile». Il «Putin 5» è un presidente di guerra, e ha tutta l’intenzione di prendere per buoni i numeri del plebiscito che i suoi sottoposti gli hanno regalato, usandoli per legittimare la trasformazione della Russia in una dittatura militare. In attesa di una probabile nuova chiamata alle armi molto temuta dai russi, secondo i sondaggi, i milioni guadagnati vendendo petrolio a Cina e India vengono dirottati verso l’industria militare russa, in un investimento che produce soltanto morte e macerie, ma che fa lievitare i salari (e l’inflazione). La Russia di Putin si prepara a una lunga guerra e, a giudicare dalle dichiarazioni recenti dei leader occidentali, anche l’Europa ora si rende conto di un pericolo che non si fermerà ai confini dell’Ucraina.
 

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