In Ucraina bisogna ripartire da un cessate-il-fuoco illimitato lungo la linea del fronte
Come insegnò Shakespeare, ci può essere metodo nella follia. Per follia intendiamo la dichiarazione del presidente francese Emmanuel Macron che ha evocato per la prima volta la possibilità di inviare militari francesi e di altri Paesi Nato in Ucraina, poi precisando che si tratterebbe di sminatori, addestratori e affini, quasi non fossero soldati. E aggiungendo di averne parlato fra gli altri con Biden e Zelensky. La conseguenza dello schieramento di contingenti armati francesi o di altri Paesi a combattere contro la Russia significherebbe nient’altro che la guerra atomica. Putin ha avuto modo il 29 febbraio di evocare questo incubo, soggiungendo rivolto agli occidentali: «Anche noi abbiamo i mezzi per colpire obiettivi nei vostri Paesi». Biden e gli altri leader atlantici hanno subito preso le distanze dal presidente francese. Anche il premier britannico Sunak, che però ha ammesso di avere già forze speciali in Ucraina con compiti di addestramento e supporto.
Fin qui la follia, a meno che qualcuno non consideri la distruzione del pianeta obiettivo invidiabile. Il metodo sta nella consequenzialità logica di questa proposta rispetto a quanto finora sostenuto dai Paesi atlantici, in varia e diversa misura. Se l’obiettivo rimane la riconquista da parte ucraina di tutte le province prese dai russi, Crimea su tutte, una volta evidente che le forze armate di Kiev non ce la possono fare non resta che rinforzarle – scontato che la guerra non si vince solo inviando armi e munizioni sempre più scarseggianti – con truppe mandate dagli Stati più esposti e disposti a impedire la vittoria russa. Fuor di metafora, l’uscita di Macron è interessante perché espone il problema dell’Occidente in questa guerra. Il quale consiste nel non avere idea precisa e condivisa degli obiettivi e dei mezzi per raggiungerli. Quando le truppe russe hanno invaso l’Ucraina, il 24 febbraio 2022, presto dimostrandosi incapaci di prendere il controllo di Kiev e dei principali territori ucraini, i leader atlantici hanno subito fissato due princìpi: non accetteremo mai la sottrazione di territori ucraini al controllo di Kiev; non vogliamo fare la guerra alla Russia. Due concetti strettamente contraddittori. Da tradurre, realisticamente, più o meno così: faremo il possibile per riportare lo status quo, ma senza combattere direttamente i russi. Una volta assodato che senza (com)battere i russi allo status quo non si torna, delle due l’una. O si rinuncia al primo scopo di guerra o si rinuncia al secondo. Facile rinunciare al primo, anche senza dirlo apertamente. Il secondo è molto più difficile da scartare, perché implica l’ammissione della sconfitta dell’Occidente per mano russa. Onta intollerabile.
Pur di non accettare la sconfitta, Macron ha evocato una scalata bellica che porterebbe logicamente, speriamo non fattualmente, all’olocausto nucleare. Basti questo per intendere il senso di disperazione che circola nelle cancellerie di quei Paesi che immaginavano di poter continuare a lungo la guerra per procura senza pagar troppo dazio. Specie in coloro che pensavano alla distruzione totale della Russia, non si sa bene per metterci che cosa o chi al posto del regime e dello Stato attuale. Un modo per uscire da questo drammatico rebus è invertire l’ordine delle priorità. La guerra non si fa per vincere la guerra ma per vincere la pace. La storia è piena di esempi di Paesi che hanno straperso grandi guerre, come Germania, Giappone e Italia, per stravincere i dopoguerra. Svolgiamo questo ragionamento. Posto che una vittoria militare dell’Ucraina potrebbe derivare solo dal suicidio della Russia – non parrebbe disposta a compierlo – la soluzione meno dolorosa sarebbe quella di ripartire da un cessate-il-fuoco illimitato lungo la linea del fronte, con garanzie di ferro occidentali all’Ucraina contro eventuali nuove aggressioni di Mosca. E relativo schieramento di forze di interposizione. Di fatto, molto più di quanto la Nato potrebbe offrire.
L’Ucraina ha già perso, fra morti, feriti, rifugiati e sfollati, più di un terzo della popolazione (51 milioni) che vantava al momento dell’indipendenza (1991). Dipende totalmente dall’estero quanto ad armamenti e finanze. Avrà bisogno forse di un trilione di dollari per ricostruirsi. Partendo dalla condizione prebellica di Paese fra i più poveri e corrotti d’Europa. Ogni giorno di guerra in più, il bilancio si appesantisce. Per riconquistare territori che non è in grado di riconquistare l’Ucraina si sta lentamente dissanguando. Consideriamo un altro aspetto, poco visibile per chi misuri le vittorie e le sconfitte solo sul piano dei chilometri quadrati di terra strappati al nemico, o ad esso ceduti. Oggi nei territori occupati del Donbas, e soprattutto in Crimea, la grande maggioranza della popolazione è pro-russa o semplicemente si sente russa (talvolta sovietica). Anche se Kiev dovesse riprendere il maltolto, si troverebbe ad amministrare e ricostruire un territorio zeppo di nemici. Scontata la guerriglia, gli attentati, insomma l’impossibilità di agire in tranquillità. Ragionando in termini di pace vinta, Kiev avrebbe interesse a non doversi accollare anche la ricostruzione di terre di fatto nemiche. Né parrebbe in grado di scatenare una «pulizia etnica», ammesso ci pensasse. Insomma, c’è del metodo nella ragione. Basta usarla.